Il vissuto di un aborto volontario è molto diverso a seconda dei casi: età gestazionale e organizzazione dei servizi possono fare la differenza. Quando la maternità non era voluta e quando l’interruzione avviene entro poche settimane dall’inizio della gravidanza, l’esperienza di un aborto volontario non lascia necessariamente strascichi negativi ed è più facilmente integrata in un percorso di consapevolezza e di comprensione dei motivi su cui si fondano le proprie scelte. Diverso è quando la maternità era stata desiderata e quando l’età gestazionale, cioè il tempo trascorso dall’inizio della gravidanza, è già avanzata. È il caso degli aborti volontari del secondo trimestre, cioè quelli che si praticano dopo i primi novanta giorni dall’inizio della gestazione e molto spesso tra mille difficoltà. Solo il 22 novembre scorso, ad esempio, un ginecologo a Napoli è stato licenziato perché si è rifiutato di eseguire un interruzione di gravidanza d’urgenza. Le criticità in questi casi non sono solo legate all’obiezione di coscienza, come raccontato da Fq MillenniuM nell’inchiesta sullo stato dell’applicazione della legge 194 a quarant’anni dalla sua approvazione, ma anche ad altri fattori. Ad esempio molto dipende dall’organizzazione dei servizi e alla formazione professionale dei medici. Poi vanno considerati pure: la comunicazione dei risultati della diagnostica prenatale, i tempi per prendere la decisione e per accedere al servizio, il luogo del ricovero e dell’induzione, i controlli a seguito dell’intervento, sono altrettanti fattori che impattano sull’esperienza delle donne e delle coppie.

Aborto dopo i 90 giorni, chi decide e a quali condizioni – Claudia Mattalucci, antropologa dell’Università Milano-Bicocca che ha approfondito l’argomento, definisce l’aborto di secondo trimestre come “un’esperienza molto difficile e dolorosa. Si tratta di gravidanze desiderate, in molti casi a lungo posticipate, su cui c’è un forte investimento affettivo. L’aborto di secondo trimestre viene descritto come un evento traumatico dal punto di vista emotivo che produce risposte importanti e intense reazioni di dolore che sono ancora rintracciabili alcuni anni dopo”. Questi aborti volontari sono definiti “terapeutici”. Dopo i 90 giorni, infatti, la legge 194 prevede la possibilità di interrompere la gravidanza solo per ragioni sanitarie. Nello specifico, quando la presenza di patologie gravi nel corso della gravidanza o nel puerperio possa causare la morte della donna o quando il proseguimento della gravidanza potrebbe nuocere alla salute psichica della donna. Mentre nel caso dell’aborto del primo trimestre la scelta è in carico alla donna, nel caso dell’aborto del secondo trimestre la valutazione dei fattori che permettono di ricorrere all’intervento spetta agli specialisti del servizio ostetrico-ginecologico ospedaliero. “Una buona assistenza ha un ruolo molto importante per l’elaborazione di questa esperienza. Nelle strutture ospedaliere l’alternanza tra medici obiettori e non obiettori espone le donne ad attese e tempi di abbandono e talvolta ad accuse, rimproveri che rendono quest’esperienza ancor più penosa – spiega Claudia Mattalucci. Tra molte testimonianze riferite dai mass media c’è quella di Laura Fiore, che ha raccontato la propria esperienza nel libro autobiografico Abortire tra gli obiettori. La moderna inquisizione. Queste situazioni, afferma Mattalucci, sono gravi ma non sono la norma. “Molte donne dopo un aborto terapeutico si sentono in colpa. Ma io ho incontrato anche donne che hanno portato avanti la gravidanza e che si sentono in colpa per non aver interrotto la sofferenza dei loro figli – osserva Mattalucci. Tutto questo per dire che i ginecologi e le ostetriche hanno il difficile compito di assistere donne (e uomini) che affrontano una grande sofferenza. È difficile stare accanto nel dolore, fornire informazioni accurate e esaustive, accompagnare senza forzare le scelte”.

Se mancano le reti, l’unica strada è il passaparola – L’organizzazione dei servizi rimane uno dei fattori di fondamentale importanza. Secondo Elsa Viora, presidente di Aogoi (Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani), la soluzione sarebbe nella disposizione di reti strutturate a livello regionale con uno o due centri di riferimento per ogni Regione, dove convogliare gli esiti di diagnosi prenatali infauste. “Chi si occupa di diagnostica prenatale deve fornire tutto ciò che ci sta intorno. La diagnosi è il primo passo di un percorso molto complesso e deve essere valutata insieme ad altri specialisti per capire la patologia del feto a breve e lungo termine. Non possiamo avere, ad esempio, esperti in cardiopatie fetali in tutti gli ospedali. Per questo servono équipe multidisciplinari. Il numero dei malformati è intorno al 2%, quindi non è possibile, né avrebbe senso, avere esperti in tutti gli ospedali. Solo con una rete organizzata è possibile offrire a tutte le donne ciò a cui hanno diritto”, spiega Viora.

Non è d’accordo Massimo Srebot, primario del reparto di ginecologia all’Ospedale di Pontedera, in Toscana: “Significa scaricare i problemi sempre sulle spalle dei soliti. Ogni Asl, invece, deve avere un protocollo operativo e ogni centro deve essere attrezzato ad accogliere i bisogni delle donne e delle coppie che si trovano di fronte a una diagnosi di malformazione fetale, grave o lieve che sia. In Toscana siamo organizzati così. I protocolli si possono esportare e quelli migliori si possono mettere a sistema. Anche per non costringere le donne, già provate dalla situazione, a lunghi spostamenti”.

Gli spostamenti tra città o tra Regioni a causa della mancata presa in carico dell’aborto terapeutico non sono tracciati dalla Relazione annuale sulla applicazione della Legge 194. Nel 2016 l’Agenzia Regionale di Sanità della Toscana calcolava (sul totale delle Ivg fatte in Regione) il 12,0% di donne per Ivg proveniente da fuori regione o riguardante cittadine straniere non residenti.

Di reti strutturate per ora (tranne in Piemonte) non c’è traccia – Il passaparola è la regola. I commenti di chi prova ad applicare la legge 194 sono tutti dello stesso tenore: “Sia le ostetriche che i ginecologi e le ginecologhe del territorio sanno chi sono e dove sono i pochi non obiettori ed inviano lì”, osserva Marina Toschi, di Agite (Associazione ginecologi territoriali). “In Lazio si pratica l’aborto dopo i 90 giorni solo a Roma. A Rieti, Viterbo, Frosinone e Latina non c’è nessuno. Vi è passaparola con cellulare o sul sito di Laiga”, spiega Silvana Agatone, ginecologa della Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’applicazione della legge 194/78. “Certamente non abbiamo linee di indirizzo ministeriali, ma non mi risulta che ve ne siano delle varie regioni, certamente non per il Lazio. Peraltro nessuno si e mai pronunciato sulla liceità o meno del feticidio, che è raccomandato dal RCOG (Royal College of Obstetricians and Gynaecologists) dopo la 21esima settimana, né esiste una formazione specifica sulle tecniche chirurgiche per il secondo trimestre”, è la testimonianza di Anna Pompili, ginecologa dell’Assocazione medici italiani contraccezione e aborto. “Vitadidonna risponde, indirizza e sostiene, ma di strutturato non c’è niente e non ci sono percorsi, e le donne, in Lazio, sono spinte al Bambin Gesù”, commenta Elisabetta Canitano, ginecologa di Vitadionna.

Gli ospedali cattolici che fanno obiezione (anche se la 194 non lo prevede) – A proposito di Bambin Gesù: nello scenario bisogna calcolare anche gli ospedali cattolici. Sono strutture private ma accreditate presso il Servizio sanitario nazionale attraverso convenzioni con le Regioni. Tradotto, i soldi sono pubblici ma la gestione è privata. A fare obiezione di coscienza, in questi casi, non è la singola persona ma l’intera struttura (sebbene la legge 194 non lo preveda). Antonio Lanzone, professore ordinario di ostetricia e ginecologia Università cattolica, spiega come funziona: “Non si abortisce perché c’è una malformazione, ma si abortisce perché la malformazione può provocare il disagio psicologico per la madre. Quindi noi è sul disagio psicologico che andiamo a lavorare. Abbiamo una rete di informazione e attiviamo servizi per supportare la donna nel caso decida di non abortire. Anzi la offriamo alla coppia, perché c’è anche l’uomo. Lo facciamo anche nei cosiddetti feti terminali, dove ad esempio ci sono coppie che decidono di andare avanti anche con feti anencefali. Se intendono portare avanti la gravidanza fino alla fine, li accogliamo nella rete nazionale degli hospice. Vi sono prove che in questo modo elaborano meglio il lutto perinatale e poi sono avvantaggiati nell’affrontare una nuova gravidanza. Nel caso la donna decida di abortire va in altri ospedali, ma non indirizzata da noi”. È bene che le donne lo sappiano, quando per farsi seguire in gravidanza si rivolgono ad una struttura privata come per esempio il San Raffaele (a Milano) o il Gemelli (a Roma).

Una soluzione? Formare i nuovi medici – Alla luce di questa situazione complessiva si capisce perché la formazione dei medici sia tanto importante. “Gestisco da trent’anni un servizio Ivg ed una struttura in cui è possibile eseguire. E’ estremamente difficile fare in modo che gli specializzandi turnino nel servizio IVG , – afferma Nicola Colacurci, ginecologo della Associazione Ginecologi Universitari Italiani. Secondo me l’interruzione volontaria deve essere gestita da persone che si interessano a 360 gradi di salute riproduttiva, in cui non c’è nessuno che le boicotta e che si sentano inserite in un percorso positivo. Oggi gli specializzandi che scelgono di non fare obiezione non sono gratificati perché non sono inseriti in un percorso positivo. Non parlo solo delle interruzioni di gravidanza terapeutiche, ma in generale della Ivg: se possono la evitano, la vivono come poco professionalizzante. Nella formazione dobbiamo lavorare perché acquistino la coscienza morale che sia meglio farlo in modo sicuro piuttosto che lasciarlo alla clandestinità”.

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