Fa una certa impressione leggere a firma di due illustri economisti di scuola bocconiana, quali sono Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, sulle pagine del Corriere della Sera che fu di Albertini e di Luigi Einaudi un manifesto del “liberismo che serve ai deboli” che, dispiace dirlo, ha poco da spartire con il liberismo (certamente quello classico, ma come vedremo anche quello del XX secolo) e sembra più che altro finalizzato a confezionare armi a un Pd, distrutto dal praticume e dall’assenza di visione teorica del leader pro tempore, Matteo Renzi, per la battaglia politica e per la ricostruzione.

La tesi avanzata sul quotidiano il 16 novembre da Alesina e Giavazzi è così riassumibile: il liberismo è un modello teorico che mette al centro al concorrenza e la competizione, quindi (sottolineato) esalta e premia il merito. Il merito uguale possibilità per tutti anche per quanti partono da condizioni sfavorevoli, la strada maestra per consentire anche ai “poveri” di emanciparsi dalla loro condizione. Altro che reddito di cittadinanza. Parole sante, peccato che – presi dalla polemica politica di cui il Corriere purtroppo si fa portabandiera – per sostenere questa lettura, parziale e irrealistica del liberismo bisogna procedere a molte semplificazioni. Peccato che la teoria liberale sia una cosa, l’attacco al governo e i suggerimenti al Pd siano un’altra, due piani che non si possono mischiare.

Vorrei evitare di discettare sulla reale identità ideologica di questo governo, come di molti altri che l’hanno preceduto, stante in genere la pochezza di consapevolezza teorica dei nostri governanti degli ultimi 30 anni. A tale proposito, ricordo solo che il cavalier Berlusconi, a sentir lui, avrebbe promosso un programma di “rivoluzione liberale”. Il liberismo in Italia è un grave problema, nel senso che liberali non ne esistono e quelli che dicono di esserlo in genere non sanno di ciò che parlano. Gli industriali, in primis quelli grossi, dovrebbero incarnare lo spirito e la prassi del liberalismo, ma non c’è bisogno di citare qualche vicenda tra le più scandalose e le più calde degli ultimi anni, per sapere che in realtà gli imprenditori privati (al 95%) in realtà in Italia sono bravi principalmente a trafficare con la politica (cosa assolutamente non liberale) e a rastrellare sussidi pubblici.

Brevemente poi ricorderò che in Italia gli ultimi responsabili dello scomparso Pli si erano fatti coinvolgere nelle peggiori nefandezze partitocratiche e stataliste in senso deteriore (ministro De Lorenzo, Poggiolini) e che gli esponenti “liberali” di Forza Italia non hanno dato grande prova di sé. Per la crescita di un’Italia veramente liberale. Insomma a tutt’oggi sul piano pratico le conseguenze dei comportamenti dei politici che hanno cercato di tenere alta la bandiera liberale sono state disastrose e opposte, rispetto agli stessi buoni principi cui dicevano di ispirarsi. Certo non per colpa dei principi stessi, ma per le consuetudini italiche che portano a sfruttare le idee semplicemente come un velo per commettere le peggiori nefandezze a proprio vantaggio. Certamente in teoria un autentico liberismo potrebbe essere la strada migliore, anche per l’Italia. In pratica da noi (e non solo) è sempre stato una iattura. E purtroppo c’è una caratteristica intrinseca del liberismo che facilita queste “deviazioni”: il liberismo (quello vero) è funzione ed espressione del contesto, lo subisce, non lo determina; se il contesto è efficiente, se cioè tende a massimizzare l’interesse generale, il liberismo funziona, altrimenti diventa solo una copertura alla pratica della legge del più forte.

Bisognerebbe andarsi a leggere, ad esempio, i tre aurei volumetti di Legge, legislazione e libertà di Friedrich von Hayek per capire in cosa consista realmente il liberismo e rendersi conto quanti anni luce lo separino dal liberismo piddino di Alesina e Giavazzi. Al primo posto nel liberismo c’è una base morale, un vero rispetto per ogni singolo individuo, una deferenza nei confronti delle tradizioni e delle consuetudini, il primato assoluto della legge, una visione giuridica di fondo che (qui non è possibile ovviamente dettagliare) e che fa a pugni con il liberismo “per i poveri”, semplificato e ridotto ad usum delphini. Il liberismo in particolare per l’Italia sarebbe veramente una vera rivoluzione, che peraltro non vedo come potrebbe essere attuata, in un Paese come il nostro, in cui tutti – a incominciare dai gruppi industriali e bancari che gestiscono l’informazione – si adoperano quotidianamente con ogni mezzo lecito e illecito per strappare o conservare i loro ingiustificati privilegi, per imporre la propria forza al di là delle leggi. Anche con il supporto di intellettuali compiacenti.

La triste impressione è che il liberismo di Alesina e Giavazzi, in realtà, sia un liberismo che sotto le spoglie finte dell’interesse dei più deboli, in realtà punti a mantenere solidi gli interessi dei più forti. Una critica che si presenta sotto le sembianze di una teoria, ma che deve essere funzionale alla lotta politica., non è credibile. Al contrario l’unica strada per servire realmente i più deboli è togliere ogni ingiustificato vantaggio dei cosiddetti poteri forti in Italia. Ripristinare una condizione di parità tra gli individui e lo Stato, tra gli individui e i gruppi organizzati, tra gli individui e le istituzioni (anche europee). Liberismo è prima di tutto riportare al centro i cittadini, consentire di concorrere a determinare il futuro, dare a tutti appunto “il massimo delle possibilità per conseguire i propri fini secondo le proprie conoscenze“, ripristinare un implacabile principio di responsabilità sopratutto per chi ha posizioni e stipendi di prestigio. Ma non ditelo in giro, in teoria, con tutti i limiti di una classe dirigente modestissima, alcuni di questi sembrano essere tra gli obiettivi di questo governo.

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