di Antonio Carbonelli*

Con ordinanza del 16 ottobre 2018 il giudice del lavoro presso il Tribunale di Brescia ha rimesso alla Corte di Lussemburgo le somministrazioni di manodopera come disciplinate dal cosiddetto decreto Renzi e poi dal cosiddetto Jobs act. In particolare, il giudice nazionale chiede di valutare se sia conforme al diritto comunitario una normativa interna che a) non prevede limiti alle missioni successive del medesimo lavoratore presso la stessa impresa utilizzatrice; b) non subordina la legittimità del ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo determinato all’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo del ricorso alla somministrazione stessa; c) non prevede il requisito della temporaneità dell’esigenza produttiva propria dell’impresa utilizzatrice quale condizione di legittimità del ricorso a tale forma di contratto di lavoro.

La clausola n.5.5 della Direttiva sul lavoro tramite agenzia interinale infatti prescrive che gli Stati membri adottino le misure necessarie per evitare il ricorso abusivo a tale figura contrattuale, e in particolare per prevenire missioni successive con lo scopo di eludere le disposizioni della Direttiva; l’articolo 1.1 presuppone il carattere temporaneo dell’assegnazione del lavoratore all’impresa utilizzatrice; e l’articolo 3.1 nelle proprie definizioni attribuisce espressamente alle missioni il connotato della temporaneità. Nulla di tutto questo è presente tuttavia nel diritto italiano dopo il decreto legge n.34 del 2014 e il decreto legislativo n.81 del 2015. Donde il quesito di compatibilità con il diritto comunitario.

Nella giurisprudenza interna, in assenza di limiti alle “missioni” successive, si erano dunque formati almeno tre diversi orientamenti. Alcune sentenze avevano ritenuto applicabile il limite di 36 mesi e 6 proroghe previsto dal Ccnl per i lavoratori dipendenti delle società di somministrazione anche alle imprese utilizzatrici, con conseguente illegittimità dei rapporti una volta superati tali limiti.

Altre sentenze avevano ritenuto i limiti previsti dal Ccnl lavoratori somministrati applicabili soltanto ai rapporti tra lavoratori e società di somministrazione, ma non anche ai rapporti tra lavoratori e imprese utilizzatrici, con la conseguenza che i lavoratori avrebbero potuto agire soltanto nei confronti delle prime. Altre decisioni ancora, senza prendere in considerazione la Direttiva comunitaria, erano giunte ad affermare che la disciplina della somministrazione, diversamente da quella del contratto a tempo determinato, consentirebbe la successione dei contratti di somministrazione senza alcuna soluzione di continuità e senza alcun limite di tempo. Regnava dunque l’incertezza, per cui giudice che vai, diritto che trovi.

Il punto è che non si può sostenere che l’unico “strumento di flessibilità”, o piuttosto di licenziabilità, per le imprese, sarebbe costituito dalla somministrazione, per trarne che tale figura dovrebbe poter essere utilizzata senza limiti nell’ordinamento italiano, semplicemente perché uno “strumento di flessibilità” non è mai stato previsto nel nostro ordinamento, che è invece informato alla tutela di quello che la Costituzione chiama “diritto al lavoro” e al principio generale della stabilità del rapporto di lavoro, salva ovviamente la presenza di quelli che la legge chiama giusta causa e giustificato motivo di licenziamento.

In caso contrario si arrivano a legittimare situazioni di utilizzo di manodopera di mese in mese o addirittura di settimana in settimana per 4-5 anni, o come è toccato di vedere in alcuni casi a chi si occupa della realtà dei rapporti di lavoro, persino per 8-9 anni. Appare francamente eccessivo che un padre di famiglia debba prestare lavoro per dei periodi così prolungati senza sapere di settimana in settimana se e quale possibilità di lavoro lo attenda la settimana seguente, e stiamo parlando di rapporti di lavoro subordinato.

Più in profondità, una simile distruzione del diritto del lavoro è frutto, a monte dei fatti politici ed economici nella cui cornice è stata attuata, di una vera e propria filosofia sviluppatasi senza dar nell’occhio nel XX secolo, mentre i filosofi di professione si occupavano di tutt’altro, e tendente a provocare gradatamente una redistribuzione patrimoniale il più possibile accentuata verso l’alto mediante tre strumenti semplicissimi: primo, blocco dell’inflazione, creazione di aree valutarie omogenee e liberalizzazione dei flussi finanziari internazionali, per incrementare la consistenza dei patrimoni maggiori; secondo, distruzione graduale e progressiva di scuola, sanità e sistemi pensionistici pubblici, per abbassare la tassazione; terzo, distruzione graduale e progressiva del sindacato e del diritto del lavoro, per comprimere i salari e trasferire una parte maggiore dei ricavi al profitto d’impresa.

L’ordinanza in commento si pone in controtendenza rispetto a una tale impostazione di pensiero, e richiama il legislatore e gli operatori giuridici nazionali all’individuazione di limiti alla liberalizzazione indiscriminata dei rapporti di lavoro.

* Antonio Carbonelli (1964), sposato e con tre figli, è avvocato giuslavorista a Brescia e socio Agi – Avvocati Giuslavoristi Italiani. Nel 2015 ha pubblicato “I fondamenti teoretici della ‘crisi’ – Economia fuori controllo o disegno preciso?”, di analisi e confutazione del liberismo economico, e negli anni 2016, 2017, 2018 i tre volumi di “Rileggere la modernità – Alla ricerca di una nuova etica”, di ripensamento radicale delle opere dei principali filosofi da Cartesio a Chomsky (Marco Serra Tarantola Editore, Brescia)

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