Uno studio dell’Università di Oxford ha accertato che l’88,4% delle app gratuite scaricate da Google Play trasmette i nostri dati personali a una società che a sua volta le rivende a Facebook, Twitter, Microsoft, Amazon e altri. Gli esperti di informatica ci dicono da anni che “quando un servizio è gratuito, la merce siamo noi”, e questo studio ne è l’ennesima conferma.

I ricercatori hanno passato al setaccio circa 600mila applicazioni presenti sui Google Play di Gran Bretagna e Stati Uniti, e i risultati sono piuttosto sconfortanti nelle proporzioni. Non è un segreto che i dati personali degli utenti siano “merce preziosa” per i colossi del marketing. Però fa specie leggere che 9 app su 10 di questo campione abbiano all’interno un “tracker”, un codice, che prende i dati personali dell’utente e li “gira” ad Alphabet, cioè a Google.

 

Alphabet, a sua volta, trasmette le preziose informazioni ad altri colossi del web. In particolare, stando allo studio, nella maggior parte dei casi i dati vanno in mano a Facebook, Twitter, Verizon, Microsoft e Amazon. Da qui poi le informazioni passano di mano in mano ad aziende controllate o satelliti: per esempio, Flurry è di proprietà di Yahoo, che è di proprietà di Oath, che a sua volta è di proprietà di Verizon.

Quali sono i dati trasmessi? Dipende all’app. Possono riguardare l’età e il genere dell’utente, la sua posizione geografica o il tipo di dispositivo su cui l’ha installata. Nel complesso, una volta elaborati, possono essere usati per dedurre per esempio preferenze e potere d’acquisto, quindi per riflesso la condizione socio economica dell’utente.

Come inizia questa “migrazione” di dati? Parte dall’utente e, vi sorprenderà saperlo, siete stati proprio voi a darne il consenso. Mettiamo per esempio che scarichiate un’app per la navigazione satellitare: durante l’installazione acconsentite che abbia accesso alla vostra posizione. Vi è indispensabile se volete che vi guidi a destinazione.  Il problema è che, acconsentendo, avete anche accettato il “tracker”. È su questo particolare che i ricercatori puntano il dito.

Il quotidiano finanziario Financial Times riporta che Alphabet ha contestato metodologia e conclusioni dello studio di Oxford, ricordando che ci sono regole interne precise che proibiscono l’uso “non trasparente” dei dati. Ne prendiamo atto, ma non cambia il fatto che la stragrande maggioranza degli utenti accetti un tracker di cui non conosce né le finalità, né tanto meno l’esistenza.

Come detto, lo studio non riguarda nello specifico l’Italia, ma lascia il dubbio che il trattamento dei dati personali nel Belpaese possa essere gestito in maniera analoga. Non a caso, nelle conclusioni, i ricercatori definiscono la gestione dei dati degli utenti un fenomeno ormai “fuori controllo” in svariati Paesi, ed è difficile dare loro torto.

Certo è che gli utenti non hanno modo di controllare come, quando e in che mani finiscono i loro dati. Possono solo decidere se la propria privacy sia o meno un prezzo accettabile per avere servizi ben fatti, senza pagarli in denaro. Fate i vostri conti.

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