La nostra salute passa anche dal benessere degli animali. I polli stipati in batteria sono più stressati e più soggetti ad ammalarsi e a prendere antibiotici (anche quando non servono, a scopo preventivo, per evitare epidemie nei capannoni). E l’uso massiccio di antibiotici negli allevamenti intensivi favorisce l’antibiotico-resistenza, minaccia mondiale che colpisce uomini e animali. Oggi 19 associazioni italiane (tra cui Animal equality, Ciwf Italia, Lav e Legambiente) che fanno parte della coalizione europea “End the cage era”, ovvero “Stop all’era delle gabbie” (che riunisce complessivamente oltre 130 associazioni), lanceranno alla Camera una raccolta firme per mettere fine all’uso delle gabbie negli allevamenti. Comprese quelle arricchite. L’obiettivo è arrivare a un milione di firme a livello europeo per chiedere una nuova legge a Bruxelles.

Gli animali allevati in gabbia in tutta l’Ue, tra galline, scrofe (durante il parto e i primi giorni di allattamento), quaglie e conigli, sono almeno 300 milioni. Ma a fare la differenza non siamo solo noi consumatori scegliendo al supermercato le uova da galline allevate a terra, per esempio. Un grosso sforzo deve essere fatto anche dalle aziende alimentari. Il 10 ottobre sette grandi industrie del food, con un bacino di 3,7 milioni di consumatori al giorno e un fatturato di 139 miliardi di euro (Nestlè, Unilever, Sodexo, Ikea food, Aramark, Compass, Elior) hanno dato il via alla Global Coalition for Animal Welfare (Gcaw), la prima iniziativa al mondo per chiedere ai fornitori il rispetto degli standard di benessere negli allevamenti. Cinque le priorità dell’alleanza: eliminazione delle gabbie, stop al sovraffollamento di impianti di polli e pesci, promozione del pascolo, riduzione dell’uso di farmaci e tutela delle condizioni idonee di trasporto e macellazione.

La campagna è senz’altro importante, occhio però a non demonizzare gli allevatori: i costi per il benessere degli animali non possono essere addebitati soltanto a loro. Anche le industrie alimentari devono essere disponibili ad accordi di filiera che prevedono una giusta ripartizione dei maggiori costi di produzione. Non possono cioè pretendere di continuare a pagare la carne a prezzi stracciati. Altrimenti sarebbero ipocrite. È indiscutibile che anche l’allevatore debba essere messo nelle condizioni di sopravvivere senza rinunciare alla sua attività. Per competere sul mercato un allevatore di suini deve avere all’incirca 5mila capi. E se la superficie è poca (come in Italia, penisola stretta con pochi pascoli, dove non per caso si è sviluppato un allevamento di tipo intensivo), stanno appiccati nei box. Anche a lui piacerebbe avere meno maiali e farli scorrazzare all’aperto, ma i prezzi bassi della carne imposti dal libero mercato mondiale costringono l’allevatore a massimizzare i profitti.

Per rompere questo circolo vizioso, l’allevatore deve poter vendere la carne a un prezzo più alto. E siamo ancora una volta noi che possiamo fare la differenza: accettando di spendere di più per una confezione di braciole o petti di pollo, diffidando dalle confezioni sottocosto o in super offerta.

Qui la petizione

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