di Vera Cuzzocrea *

Secondo lo psicologo Jerome Seymour Bruner, “non c’è niente che un bambino non possa capire: il difficile è per gli adulti trovare il modo di spiegare le cose”E se mio figlio, 11 anni, oggi mi avesse chiesto di spiegargli il motivo per cui sono morti una bambina di sei mesi ed il fratellino di due anni per opera della loro mamma, in un carcere, io mi sarei sentita non poco in difficoltà.

Come mamma, pensando a tutte le madri che non riescono a proteggere i propri figli ma che anzi ne determinano sofferenze ed esiti ineluttabili e a quelle che si espongono a rischi per la propria incolumità (e non solo) scegliendo ad esempio carriere o occasioni devianti in senso delinquenziale (come la madre coinvolta in questo caso di cronaca, accusata di spaccio internazionale, che li ha fatti volare giù dalle scale). Come psicologa, per non aver saputo percepire il suo disagio, sostenere la sua vulnerabilità e intercettarne la pericolosità. Come purtroppo spesso accade, anche al di là delle mura detentive. Come istituzione giudiziaria, che ha l’ambizione di trattare la persona adulta, modificarne le condotte per prevenire la commissione dei reati e nel farlo promuove il potenziamento di risorse e vissuti positivi, come ad esempio il contatto con la prole.

Da tempo è infatti riconosciuto il ruolo della famiglia nel percorso trattamentale di una persona detenuta, cercando di agevolarne il contatto e le relazioni nell’ambito di spazi e tempi dedicati, con un’attenzione particolare ai figli in età minore (che ad esempio incontrano il genitore detenuto presso delle ludoteche o delle aree verdi, laddove presenti negli istituti di pena). Negli istituti femminili l’attenzione è ancora di più posta sulla genitorialità che si è, forse impropriamente, tentato di far dialogare con il diritto dei bambini e delle bambine molto piccole (sotto i tre anni) di stare con le proprie mamme all’interno del carcere nelle cosiddette sezioni nido oppure, presso la propria abitazione grazie all’istituto della detenzione domiciliare speciale (quando possibile e con una prole di un’età inferiore ai dieci anni).

Ad oggi non possono quantificarsi con precisione i bambini e le bambine agli arresti domiciliari con le loro madri ma sappiamo che sono circa 60 quelli che vivono nelle carceri, pur non avendo commesso reati. Eppure una terza via esiste. Più di dieci anni fa sono nati gli Icam: delle strutture “a custodia attenuata” per madri detenute. Sono istituti detentivi a tutti gli effetti, ma realizzati in modo che i bambini vivano il meno possibile il dramma della detenzione della madre, quale strategia operativa che permette realmente di conciliare il diritto alla genitorialità con il diritto dei piccoli di vivere in un ambiente idoneo e tutelante.

Ma in questa triste storia non si ripete solo il dramma del mancato accesso ad una risorsa istituzionale virtuosa seppur troppo poco presente (queste strutture sono solo cinque in tutta Italia). Il vero dramma che si ripete è quello di una madre che pone termine alla vita dei figli, immaginando di restituire loro, in un universo parallelo altro fatto di sogni, opportunità e risorse, magicamente (e patologicamente) creato per donare ciò che non siamo riusciti a garantire nel quotidiano, cioè libertà e protezione.

Il vero dramma che non saprei spiegare a mio figlio è il non essere riusciti tutti ad arrivare in tempo per garantire effettivamente protezione e tutela a quei bambini e a quelle bambine, magari con una dose competente di ascolto empatico, valutazione dei campanelli di allarme emergenti e cura di genitorialità a rischio, devianti e non.

* psicologa e psicoterapeuta

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