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L’Ilva non chiude, ma almeno Tamburi (il quartiere della morte) andrebbe raso al suolo

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Il dito e la luna. L’antico proverbio orientale ci spiega che luna e dito appartengono a due dimensioni diverse, a due mondi differenti. Quando penso a Taranto, all’Ilva, al dilemma antico e quasi irresolubile tra lavoro, che dà dignità e speranza alla vita, e salute, che garantisce proprio alla vita la speranza, penso a quel che intanto non si è fatto, al tanto che intanto i tarantini, con l’aiuto degli italiani, avrebbero potuto già fare.

Le croci verdi delle farmacie illuminano la via principale di Tamburi, il quartiere delle polveri e della morte. Sembrano supermarket tanto sono grandi, affollate come le salumerie nell’ora di punta. Qualcuno avrà pure pensato che quei poveri cristi, intanto che c’è l’Ilva, non possono vivere lì, non devono vivere lì? C’è l’Ilva, sì. Ma esiste pure Tamburi. E se sulle presse e i forni, se spegnerli o meno, accordo non c’è né ci sarà, perché la paura di perdere il lavoro è più forte di quella di perdere la vita, lo Stato italiano, la Regione Puglia hanno almeno la forza di svuotare Tamburi? E per esempio ridare vita e speranza al centro storico della città, ora marcio come un dente cariato.

Se l’Ilva è troppo importante per l’economia nazionale e per i tarantini, se il lavoro deve sfidare la morte perché la paura di perderlo è più forte di ogni altra cosa, perché, intanto che si discuteva, si protestava, si scioperava, non si è scelta Taranto per l’Expo universale che invece si è tenuto a Milano? Salvare la terra, era il tema se non ricordo male. Taranto avrebbe avuto titolo e diritto a divenire piattaforma internazionale delle possibilità che la tecnologia offre all’uomo di mitigare i danni che la modernità produce, attutirli se non annullarli.

Direte: non si risolve così il problema. Certo che no, ma se la luna è là che aspetta il dito è qui che non si muove.

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