“Grattate il russo e troverete il cosacco” sentenziò lo scrittore settecentesco Charles Joseph de Ligne. Un po’ allo stesso modo si potrebbe commentare: “raschiate il ministro Salvini e troverete ForzaLega”; ossia il peggio della Seconda Repubblica, che qualche ingenuo ridanciano dava ormai per morta.

Il mix di rissosità bullesca bossiana e vittimismo impudente berlusconiano. Per cui si è fatto il pieno di consensi della parte di Paese ormai incanaglita dalla propaganda terroristica sulle invasioni in corso, agitando mediaticamente il randello e la ruspa al grido valligiano di “fora de bal”; quando si è tirata troppo la corda sul terreno dell’impunità ministeriale e la magistratura ha cominciato ad annusare sospette illegalità a scopo elettorale, ecco il ricorso all’incredibile argomentazione made in Arcore: “Io sono stato eletto e i giudici no”. Di conseguenza: “Non loro ma solo il popolo può giudicarmi”. Uno pseudo-sillogismo, espressione dell’arcaico annidato nelle pieghe del pragmatismo prepolitico lombardo (secondo l’ex magistrato Gherardo Colombo il primo a farvi ricorso fu Bettino Craxi negli anni Ottanta) rimesso a nuovo dall’uso spregiudicato delle tecnologie comunicative importate dal mass-market aziendale.

La miscela di retrò e post-moderno che il cappellano di Silvio Berlusconi – il psicologicamente travagliato don Gianni Baget Bozzo – nella sua veste di consulente politico aveva ibridato con suggestioni teologiche, teorizzando un principio da anno Mille: il responso dell’urna elettorale come “unzione del signore”. Quella sorta di sacrale inviolabilità in cui il boss di Forza Italia si avvolse davanti agli addebiti di ospitare uno stalliere pluriomicida quale garante della pax mafiosa, di corrompere deputati per far cadere governi ostili, di gabellare per cene eleganti ammucchiate pecorecce. La stessa corazza mistica con cui l’odierno “Capitano” leghista intende deviare gli strali avversi. Infischiandosene, nel remake argomentativo, del fatto che le elezioni – ben lungi dall’essere la formalizzazione della libera volontà popolare narrata nelle favolette democraticiste – rappresentano l’aspetto più gravemente manipolato/inquinato della nostra vita civile.

Sicché, nonostante il pompierismo di Luigi Di Maio, terrorizzato dall’eventualità di uno stop alla sua esperienza di governo, questo scontro Salvini-magistratura potrebbe mettere a repentaglio la prosecuzione dell’esperimento giallo-verde. Se non altro per il plateale spartiacque che si è creato tra i due partner sul tema legalità (che tanto dovrebbe ancora campeggiare nell’immaginario pentastellare).

Intanto cresce la sensazione che le prossime scadenze europee potrebbero coincidere anche con la consultazione politica nazionale. Come del resto indurrebbero a pensarlo le recenti mosse di Salvini. Prima e più ancora del meeting con il presidente ungherese Orban, un incontro tenuto molto sottotraccia eppure estremamente significativo: quello del 4 settembre con un personaggetto del calibro di Tony Blair. Apparentemente per chiacchierare di massimi sistemi. Eppure non è mai innocuo l’incontro con il primo referente della plutocrazia internazionale. Una sorta di reclutatore, già passato da Roma quando l’astro nascente sembrava quel Matteo Renzi poi strafogato nel pop-corn. Ora impegnato come altri professional che stazionano a Bruxelles a trovare tutele per gli interessi dominanti nell’ipotesi non improbabile che la primavera 2019, con la vittoria dei sovranisti, frantumerà l’asse Macron-Merkel dei verticisti europei e trasformerà l’Unione in un guscio vuoto.

In un tale scenario Matteo Salvini avrebbe l’opportunità di giocare la partita da solo, dando sfogo a tutto il cinismo opportunistico ForzaLega e negoziando con chicchessia, purché vantaggioso. In tutti i sensi.

Domanda conclusiva: i Cinquestelle se ne rendono conto che la calata dei cosacchi rischia di comportare la loro prematura sparizione?

SALVIMAIO

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