Nei giorni delle polemiche e della vergogna per gli sfollati di Genova, arriva anche la notizia degli sfrattati di Sesto San Giovanni, i residenti temporanei del palazzo ribattezzato Alitalia, un tempo sede degli uffici dell’ex compagnia di bandiera.

Io ci ero stata, era il 2016. Realizzavo un reportage sugli sfratti e sui tempi di assegnazione degli alloggi, tra le varie tappe, anche Milano. Mi invitarono a visitare il palazzone a sette piani di Sesto San Giovanni come esempio di ospitalità efficace. Proprio così, efficace. Perché con l’immediata assegnazione di un tetto sulla testa a chi ne aveva bisogno sopperiva alla lentezza dei tempi burocratici legali. Insomma, laddove il Comune non era in grado di fornire un’alternativa dignitosa o immediata, questo casermone che ancora conservava al suo interno i segni di un passato aziendale, evitava la strada, e il rischio – per interi nuclei – di essere mantenuti uniti.

Eppure quello di Palazzo Alitalia, non deve essere visto solo come un esempio di pietismo, di tolleranza finta o (peggio ancora) di assistenzialismo. Tutt’altro. Di quella realtà, due aspetti più di altri vanno evidenziati. Anzitutto che chi lì dentro ci ha messo piede sa e può dire quanto organizzata fosse la gestione: ognuno a fare il suo e tutti insieme a lavorare per gli altri. Chi aveva perso il lavoro alla soglia della pensione, chi lì dentro si era laureato, chi – con un marito e tre figli – dignitosamente svolgeva uno dei tanti lavori utili per evitare una poco dignitosa ospitalità gratuita. Quello era il principio su cui si basava l’accoglienza dei 268 ospiti che occupavano il palazzo quando ci andai io. Unito a un aut-aut potente: “Questo non è un ricovero di lunga degenza – i patti erano chiari – Ci si sta un po’, in attesa di una casa vera da parte del Comune e poi si lascia lo spazio ad altri che avranno bisogno”. E così era. Con il risultato di essere anche un grimaldello alla solerzia del Comune.

La seconda riflessione è che si è trattato di un utilizzo realmente sociale di un immobile lasciato per anni nel disinteresse totale del proprietario effettivo, il ministero. Un disinteresse tangibile: lungo i corridoi e i muri di quelli che un tempo erano stati uffici e magazzini c’erano ancora tracce dei precedenti inquilini: circolari ai dipendenti che vietavano il fumo nei locali dell’azienda, estintori e loghi dell’Alitalia. Per non parlare delle utenze, lasciate attive e delle quali con email e richieste ufficiali gli occupanti hanno chiesto più volte il distacco, manifestando la volontà di pagarle autonomamente.

Tutto senza risposta. Tutto abbandonato e vandalizzato per cinque anni, salvo poi essere usato virtuosamente per gli altri grazie alla gestione di tre realtà consolidate nel panorama dell’assistenza: Clochard alla riscossa, Unione inquilini Milano e Comitato diritto alla Casa. Quando ci andai io gli ospiti erano 268. Tutti dentro a una struttura dal titolo evocativo: Aldo Dice 26×1 (nome ripreso da un’espressione storica della Resistenza) che – per inciso – poteva contare, a livello strada, su due mercatini dell’usato per l’autofinanziamento, una sala bambini, spazi e cucina comuni, social club, sala da ballo.

Palazzo Alitalia. L’immobile risorto grazie alla vita che è stata riportata al suo interno, ora rischia di tornare a essere una caverna di archeologia aziendale: abbandonata e inutilizzata.

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