Qualcuno lo ha perfino definito il “Savonarola di Varese”. In effetti monsignor Carlo Maria Viganò, l’ex nunzio negli Stati Uniti che ha chiesto le dimissioni di Papa Francesco, non accenna ad abbassare i toni nei confronti di Bergoglio. Ma dal Vaticano prosegue la linea del silenzio. Il nome di Viganò balza alle cronache durante lo scandalo Vatileaks 1, nel 2012, quando, tra i tanti documenti riservati di Benedetto XVI resi pubblici, ci sono anche alcune lettere del nunzio.

Nato a Varese nel 1941, il diplomatico viene ordinato prete nel 1968 e incardinato nella diocesi di Pavia. Da lì è un’ascesa continua. Viganò frequenta la Pontificia accademia ecclesiastica che forma i sacerdoti destinati al servizio diplomatico della Santa Sede nelle nunziature di tutto il mondo e nella Segreteria di Stato. L’uomo si fa subito notare e stimare e viene chiamato dall’allora sostituto, ovvero il ministro dell’Interno vaticano, monsignor Giovanni Benelli, come suo segretario insieme con l’argentino Leonardo Sandri, oggi cardinale prefetto della Congregazione per le Chiese orientali. Sono gli anni di Paolo VI di cui Benelli era allievo ed erede e al quale avrebbe dovuto succedere nei due conclavi del 1978.

Chi ha lavorato fianco a fianco con Viganò in Segreteria di Stato lo racconta come un uomo scrupoloso, preparato e immerso nel lavoro. Nel 1989 Giovanni Paolo II lo nomina osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa. Nel 1992 sempre Wojtyla lo nomina arcivescovo, ordinando personalmente a San Pietro, e lo invia come nunzio apostolico in Nigeria. “La Chiesa invia te, monsignor Carlo Maria Viganò, – gli dice Giovanni Paolo II nell’omelia – quale pro-nunzio apostolico in Nigeria, col compito di farti testimone della solidarietà ecclesiale verso le giovani Chiese di quella grande nazione africana, condividendo con esse la gioia dell’annuncio evangelico”. Dopo 6 anni, nel 1998, il Papa polacco lo richiama a Roma affidandogli il prestigioso incarico di delegato per le rappresentanze pontificie nella Segreteria di Stato. Un osservatorio privilegiato dal quale Viganò ha la regia di tutte le nunziature del mondo. È qui che il diplomatico ritrova monsignor Sandri che, dal 2000 al 2007, a cavallo dei pontificati di Wojtyla e Ratzinger, ricopre il ruolo di sostituto.

Per Viganò, però, lo scenario cambia completamente con l’arrivo del cardinale Tarcisio Bertone al vertice della Segreteria di Stato al posto di Angelo Sodano. Tra i due, infatti, gli scontri sono sempre più frequenti tanto da convincere il porporato salesiano a far trasferire il nunzio come segretario del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano. È qui che Viganò, ancora una volta, si fa valere e risana una situazione di deficit e corruzione gigantesca. Il nunzio si trova bene a lavorare in tandem con il cardinale Giovanni Lajolo che, come lui, dalla Segreteria di Stato è stato trasferito al Governatorato come presidente. Viganò non nasconde la sua speranza di succedere a Lajolo, nato nel 1935, e di essere nominato cardinale da Benedetto XVI. La sua speranza, però, va in frantumi quando Bertone decide di allontanarlo da Roma e, alle fine del 2011, lo fa nominare da Ratzinger nunzio a Washington.

Viganò fa di tutto per non partire. Chiede di essere ricevuto da Benedetto XVI e cerca di resistere all’esilio negli Usa dicendo che in questo modo il suo lavoro di moralizzazione del Governatorato andrà in fumo in un solo colpo. “Beatissimo padre, – scrive Viganò a Ratzinger – un mio trasferimento dal Governatorato provocherebbe profondo smarrimento in quanti hanno creduto fosse possibile risanare tante situazioni di corruzione”. Il nunzio arriva perfino a chiedere al Papa tedesco di rimandare la sua partenza perché deve assistere il fratello sacerdote malato. Eppure i due non si parlano da diversi anni per malumori legati a una loro eredità. Benedetto XVI non torna indietro sulla sua decisione per non sconfessare Bertone e Viganò è costretto a partire. Negli Usa la relazione con i vescovi americani è abbastanza buona.

Intanto, a Roma Benedetto XVI si dimette e gli succede il latinoamericano Bergoglio. Il nunzio confida in un ritorno in Vaticano da vincitore, magari con la porpora tanto agognata. C’è chi parla di un vero e proprio “risarcimento”. Nel 2015 il viaggio di Francesco negli Stati Uniti è un trionfo. L’accoglienza alla Casa Bianca con l’allora presidente Obama, il discorso al Congresso Usa che per la prima volta accoglie un Papa e quello all’Onu sono un successo. Bergoglio, come prassi, è ospite del nunzio apostolico Viganò che spera di aver messo il sigillo definitivo sul suo rientro a Roma. E soprattutto di aver finalmente conquistato la berretta rossa. Ma il Papa non lo sposta da Washington, né lo nomina cardinale, e al compimento dei 75 anni, l’età canonica delle dimissioni, si limita a mandarlo in pensione.

Il nunzio rientra in Vaticano dove, a Santa Marta Vecchia, un edificio accanto alla residenza di Bergoglio, aveva mantenuto il suo appartamento portandosi le chiavi negli Usa. Ma Francesco vuole che lo lasci e gli fa sapere che non gradisce nemmeno che vada ad abitare nella residenza dei nunzi a riposo, a via dell’Erba, una traversa di via della Conciliazione, a due passi da San Pietro. Un esilio nell’esilio. Viganò è doppiamente ferito e, secondo alcuni stretti collaboratori del Papa, medita la vendetta da servire ovviamente fredda. In molti nella Curia romana sottolineano che è di certo uno che ha i dossier che contano e che, per gli incarichi che ha svolto in oltre 40 anni di servizio diplomatico, soprattutto in Segreteria di Stato, è sicuramente in possesso di informazioni che potrebbero fare molto male a questo pontificato, ma anche ai due precedenti. La partita, insomma, è tutt’altro che chiusa. Anche perché Viganò, che è già intervenuto tre volte per attaccare il Papa e i suoi principali collaboratori, non ha nessuna intenzione di tornare indietro.

Twitter: @FrancescoGrana

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