O Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo? […] È solamente il tuo nome a essermi ostile

Con la trepida e ingenua Giulietta shakespeariana diventa grande letteratura l’illusione che cambiando nome alla cosa se ne muti la natura stessa. Con tutto il seguito di manipolazioni della realtà a venire – per cui i conquistadores spagnoli assolvevano il massacro degli aztechi in quanto costoro praticavano sacrifici umani – fino alle contorsioni verbali dell’età dei totalitarismi, quando il Comintern sovietico varò il termine “socialfascista” per bollare a fuoco riformisti e socialdemocratici; viatico alle purghe mortali contro compagni dello stesso fronte repubblicano durante la guerra di Spagna.

Tale vicenda ispirò nel 1949 una nuova formidabile invenzione letteraria: quella “neo-lingua” di George Orwell quale espediente per impedire la possibilità stessa di esprimere un’opinione deviante rispetto a quanto approvato dal ministero della Verità. La parola fattasi mannaia. E relative mattanze, come tra cultori del cristianesimo monofisita (che negava la natura umana di Cristo) e quello duofisita (la dottrina dell’uomo-dio) dopo il concilio di Calcedonia. Una discriminate lessicale che si ripropone regolarmente anche in questi giorni, sempre meno tragedia e sempre più farsa.

Lo pensavo incontrando in un palazzo delle istituzioni l’amico 5stelle; un giovane volenteroso e perbene, entrato nel movimento da uomo di sinistra ma ormai intrappolato nel meccanismo infernale dell’ortodossia per cui o ripeti la versione legittimata dal nuovo ministero della Verità o finisci nel nulla dell’apostasia.

“Farete anche qui comunella con i leghisti?” gli chiedo “Ma nemmeno per sogno, quelli sono dei filofascisti“, mi risponde a botta calda. Non a caso da quel palazzo continuano a partire delibere che multano persino i poveracci che vengono trovati a frugare nei cassonetti e l’assessore (leghista) si vanta di “prendere a calci gli ambulanti”. “Perfetto, ma con questi avete fatto un accordo di governo”. “Non alleanza ma contratto” mi risponde il giovanotto imbarazzato. Provo a spiegargli che si tratta sempre di un marchingegno argomentativo per cambiare il nome alla cosa (che rimane l’incontro di due volontà in funzione costituente), dove l’uso del termine “contratto” ricerca un distinguo fasullo; con richiami subliminali al miscuglio che va da Il contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau (dall’omonima piattaforma) al privatismo NeoLib caro ai mercatisti della Luiss. Però non si direbbe che tale astuzia abbia fatto drizzare le antenne al commento mediatico. Che passa dall’estremo dell’irrisione a quello del ponziopilatismo a prescindere.

In questo secondo caso rispolverando nei confronti del nuovo governo l’argomentazione della nota politologa Iva Zanicchi, quando sosteneva il primo governo Berlusconi sproloquiando “lasciamolo provare prima di giudicare”. Come se i precedenti non esistessero. E se la Zanicchi fingeva di ignorare che Silvio Berlusconi era un personaggio chiacchierato per il mistero dei suoi affari già nella Milano degli anni Settanta, poi balzato alle cronache politiche come ufficiale pagatore di Bettino Craxi, chi sottoscrive l’attuale contratto con i leghisti sa benissimo che Matteo Salvini è un cinico imprenditore politico intento ad arraffare il voto dell’elettorato più biecamente reazionario. Nello scadimento dalla ragion di Stato a quella di coalizione purchessia.

Una sincope della critica a tutto campo che suona a ritirata tattica. Specie se si salva l’anima con il rituale “chi lo dice lo è” da Corrierino dei Piccoli: il governo in carica si giudica già dalle sue premesse e dalle prime mosse, non paragonandolo a quello fantasmatico di Paolo Gentiloni o al bluffatore irresponsabile Matteo Renzi. Al massimo, il giudizio sospeso può consentire l’ascesa dell’anima bella nel paradiso del politicamente corretto. Ossia, come disse quel tale, “una Lourdes linguistica dove il male del mondo si scioglie in un bagno nell’eufemismo”.

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