Oggi è un Wind Day, qui. Si chiama proprio così, in inglese, come se fosse un giorno speciale. Un giorno fuori dall’ordinario. E in effetti, le scuole sono chiuse, e dalle 12 alle 18, è consigliato stare in casa, e non aprire le finestre. Perché tira vento. E Taranto è rossa delle polveri dell’Ilva. Dai Tamburi, dalla zona industriale mi avvio verso la città vecchia, verso i suoi resti.

Deserta, i muri erosi dal tempo e dal sale. E mi torna in mente un pezzo di Alessandro Leogrande. Un pezzo in cui gira per Taranto, in un giorno di inverno e tramontana, e sono tutti palazzi sfitti, cantieri fermi, attività dismesse mentre gira, gira, gira, di periferia in periferia in questa città senza più un centro: e arriva alle case operaie del Paolo VI. Arriva alla Ungaretti, in cui suo padre ha insegnato per trent’anni. Trasformandola in un riferimento per l’intero quartiere. E ora, invece, da quando è in pensione, e le classi sono state trasferite, è stato vandalizzato tutto, rubato tutto: non è rimasta una porta, un infisso, una lavagna. Niente. Hanno rubato anche i mattoni. E Alessandro si ferma a guardarla. E a guardare l’ospedale, poco più in là: in cui ha accompagnato il padre per la prima chemio.

Da quando non c’è più, è la prima volta che torno a Taranto. Alessandro non era solo quello che scriveva, era, soprattutto, quello che era. Perché era più che colto. Era saldo. Era strutturato. Era quello a cui chiedere consiglio: perché aveva misura. Misura nel senso di equilibrio, ma anche di metro, di metro per interpretare, per capire. Alessandro ti inseriva ogni cosa nel suo contesto. Ti districava il mondo. Come una chiglia di barca apre il mare.

E quanto manca, adesso. Perché quanto somiglia alla sua Taranto l’Italia di oggi. Taranto è stata dominata dall’economia di stato, prima con la Marina militare, poi con l’Ilva. Da cui un tempo, derivava il 70 percento del Pil. Poi l’Ilva, e più in generale, quel modello di economia, è entrata in crisi: ed è arrivato Giancarlo Cito. Un predicatore televisivo che è stato precursore del populismo. O come diceva Alessandro: dello sfascismo. Eletto sindaco nel 1993. Rovesciava ogni colpa sugli immigrati, sui comunisti, sui politici tutti ladri tutti uguali però, alla fine, governava come quelli che tanto contestava. Attraverso reti clientelari. Mentre Taranto diventava ogni giorno più rossa di diossina. Di cancro. Nel 2012, la magistratura ha infine disposto il primo sequestro degli impianti. Ma da allora, è stato tutto un duello tra giudici, ministri, manager: e sostanzialmente, nessuna delle prescrizioni a tutela dell’ambiente, e della salute, è stata mai attuata. Anche perché non si hanno più freni e contrappesi. I sindacati non esistono più, i nuovi operai sono giovani, precari. Subalterni. E la sinistra, semplicemente, è sparita. L’unica novità, in tutti questi anni, è stata l’immunità penale per i dirigenti dell’Ilva. E i Wind Day. Come se la colpa fosse del vento, qui. Della natura.

E però Alessandro si è sempre chiesto: perché a Taranto, nonostante tutto, il posto all’Ilva resta un sogno? E criticava Alberto Asor Rosa, quando Alberto Asor Rosa criticava gli operai, con i loro cortei non contro l’Ilva, ma per l’Ilva: come se non stessero interpretando bene il loro ruolo. Ma perché per molti Taranto, oggi, è ancora questo: l’Ilva o la fame. Quanto manca, davanti allo sconcerto per quello che è diventata l’Italia, chi ancora giri per i Paolo VI, e giri e ascolti. E provi a comprendere il risentimento, la frustrazione, l’esclusione. La paura. Anche se poi il ritratto più vero, e amaro, dell’Italia di oggi non è nei libri di Alessandro, ma nella sua biografia. Era il migliore della sua generazione, si dice adesso: e però scriveva per quotidiani locali. Penso ad Alessandro, e penso a Patrick Kingsley, che a 25 anni è stato assunto dal Guardian come corrispondente per i migranti. E ha potuto viaggiare ovunque, seguirli ovunque. Penso ad Alessandro, e penso a tutto quello che non ha scritto. In Italia ti ripetono sempre: “Vedrai, avrai spazio. Sei giovane. C’è tempo”. Poi, all’improvviso, non ci sei più. E non c’è più tempo per niente.

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