Il Partito democratico pensa di uscire dalla sua crisi nascondendo il simbolo e andando alle elezioni sotto le insegne di un “fronte repubblicano” che difenda i valori dell’Unione europea, in una specie di secondo tempo del voto del 4 marzo che veda il ballottaggio definitivo tra sovranisti e anti-sovranisti. Io penso che sia una scelta molto rischiosa. Per varie ragioni.

La prima ragione è strategica. Si tratta dello stesso approccio usato, con disastrosi risultati, il 4 marzo. “Questo voto è una scelta di campo”, diceva già a febbraio Paolo Gentiloni, ormai ex premier che dovrebbe guidare il “fronte repubblicano”. Gli italiani hanno scelto in massa l’altro campo, quello dei politici inesperti e volubili (M5S) o di quelli rancorosi e determinati (Lega). Se il “fronte repubblicano” si presenta come estremo difensore dei valori europei e delle istituzioni italiane e poi viene umiliato come il Pd, questo sarebbe il colpo di grazia proprio a quei valori e a quelle istituzioni che vuole difendere. Gentiloni può incarnare uno stile di governo sobrio, non urlato, rassicurante. Ma non sarà mai in grado di ri-motivare chi è disposto a salti nel buio tipo l’uscita dall’euro invece che traccheggiare nello status quo difeso dal “fronte”.

Ma soprattutto gli alfieri dei valori europei non hanno fatto alcuna riflessione sulle ragioni della loro sconfitta, non hanno ricostruito legami con il resto della società, non sono stati capaci di elaborare un messaggio. E neppure una risposta a quelli che il finanziere George Soros, simbolo di tutti i mali globalisti per i critici o incarnazione delle ultime utopie europeiste per gli ammiratori, indica come i tre problemi da risolvere in Europa: “La crisi dei rifugiati, la disintegrazione territoriale modello Brexit e le politiche di austerità che hanno minato lo sviluppo europeo”. Carlo Calenda è l’unico che ha qualcosa da dire, in questa fase, ma il suo approccio (ammettere gli errori delle élite ma rivendicare il diritto e il dovere per queste di risolvere i problemi pregressi invece che arrendersi ai populisti) non sembra conquistare nuovi consensi al fronte europeista.

La seconda ragione per cui il “fronte repubblicano” rischia di essere una scelta rischiosa è tattica. Ad oggi si confrontano due idee: quella della coalizione di centrosinistra fatta da Pd, da una lista di sinistra guidata da Giuliano Pisapia, e da una centrista affidata proprio a Calenda. L’altra idea è un listone unico, con dentro tutti, anche gente che viene da aree diverse, per esempio da Forza Italia o da Ncd. Non sfuggirà che Pisapia si è dovuto chiamare fuori dall’agone politico nei mesi scorsi per manifesta irrilevanza e la lista Calenda sarebbe una versione non troppo diversa da +Europa di Emma Bonino.

Il listone potrebbe essere lo strumento per superare il progetto del Pd, ma è una strada senza ritorno perché il Partito democratico esploderebbe nella decisione delle candidature: Matteo Renzi ancora controlla la direzione, molti maggiorenti del partito che lo avversano dovranno rivolgersi proprio a quell’organismo per chiedere la deroga al numero massimo di mandati elettivi (da Dario Franceschini a Piero Fassino a Roberta Pinotti), se vogliono candidarsi. Renzi e i renziani potranno concederla soltanto in cambio di posti in lista sottratti alle altre correnti. Si prevedono spargimenti di sangue. Ed è poi tutto da dimostrare che gli elettori gradirebbero un centrosinistra ancora più lontano dal progetto originario, con il Pd disciolto in una melassa dall’identità incerta. In un altro momento storico, il partito centrista ed europeista guidato da Mario Monti, Scelta Civica, riuscì a ottenere nel 2013 il 10,6 per cento. Non male per una forza nata dal nulla, ma percentuali di quel tipo sarebbero disastrose per il “fronte repubblicano”.

Che fare dunque? Ognuno avrà le sue idee. La mia, per il Pd, è questa.

Primo: abbandonare l’idea dello scontro finale tra le forze della ragione e i “barbari” (c’è il rischio che vincano loro). Anche perché il Pd in questi anni ha spesso inseguito gli euroscettici sul loro terreno.

Secondo: risolvere il nodo Matteo Renzi. Non è più segretario, è ingombrante, ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare ma ha ancora un po’ di consenso popolare e ha un’energia che manca a dirigenti stanchi e troppo prudenti. Non può essere lui il leader ma neanche si può far finta che non esista. Non gli dispiacerebbe un incarico europeo: difficile che il Pd possa decidere le nomine nella Commissione 2019, ma Renzi potrebbe guidare il Pd in Europa, all’Europarlamento, e così iniziare una carriera diversa in un campo per lui ancora vergine. Da ex primo ministro avrebbe un certo peso.

Terzo: il Pd deve recuperare pezzi di Paese. Non candidando “simboli” (come Lucia Annibali o Paolo Siani), ma persone che rappresentino categorie, gruppi di persone, quella classe dirigente che oggi si tiene lontana dalla politica perché la considera un ripiego per falliti in altri campi o per trafficoni dalla dubbia moralità. Al Pd serve il sindacato, servono i professionisti, servono le associazioni, servono i cattolici, servono i giovani. Non figurine, ma figure che rappresentino la parte progressista del Paese.

Quarto: serve un messaggio, un senso. Il Pd si è prefisso una missione impossibile, difendere una idea di politica che sembra superata. Se vuole presentarsi come il baluardo della democrazia rappresentativa e liberale contro le derive sovraniste e illiberali deve liberarsi da ogni compromesso morale, da ogni incrostazione clientelare e para-criminale.

Che la formula elettorale sia un listone o una coalizione, poco importa. Il 4 marzo, nonostante quello che dicono molti commentatori, gli elettori italiani hanno votato per avere cambiamenti concreti nelle loro vite. Hanno delle richieste alla politica. Che il Pd ha deciso di ignorare. E’ ora di tornare ad ascoltare.

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