Settantamila dipendenti pubblici, sacrificati dal governo in nome dei conti dello Stato, traditi dai sindacati, illusi dai giudici. E a distanza di quasi 20 anni non ancora rassegnati a rinunciare a una parte del loro stipendio da un giorno all’altro. Sono i lavoratori Ata ex Enti locali, collaboratori scolastici in forza a province e comuni che nel 1999 furono costretti a passare alle dipendenze del ministero dell’Istruzione. Le conseguenze di quella scelta continuano a pagarle ancora oggi.

Per ricostruire la loro storia bisogna tornare indietro ai tempi dei governi Prodi-D’Alema. Per riunire sotto un’unica istituzione tutto il personale della scuola, il Miur decise di far transitare alle proprie dipendenze tutti quei lavoratori assunti nei vari enti locali: tra province e comuni, ce ne sono circa 70mila sparsi per l’Italia. Il problema è che, a differenza degli statali centrali, a loro erano stati bloccati gli scatti d’anzianità dal 1988: in cambio avevano ricevuto il cosiddetto “salario di produttività” (per un 3° o 4° livello, poco meno di due milioni delle vecchie lire all’anno). Uniformare i contratti non è operazione semplicissima, e soprattutto – come previsto da quasi tutte le leggi – deve avvenire a costo zero. La legge 194/99 non fa eccezione: si decise allora di escludere dall’accordo quella retribuzione supplementare, riconoscendo per intero l’anzianità maturata negli enti locali.

La norma entra in vigore, ma a distanza di un anno il ministero dell’Economia fa i conti e si accorge che per lo Stato il saldo è negativo: restituire tutti gli scatti bloccati costa troppo. Così a luglio 2000, cambiando le carte in tavola il governo decide di rettificare il provvedimento originario e bloccare la ricostruzione di carriera, con la complicità dei sindacati che firmano l’accordo: il passaggio alle dipendenze dello Stato avviene con la sola voce stipendiale, privata per di più delle indennità accessorie. La beffa è doppia e ovviamente subito partono i ricorsi, ma con la normativa palesemente violata la partita in tribunale è scontata. Lo Stato comincia ad accumulare sconfitte su sconfitte e così decide di correre ai ripari, con una norma retroattiva. Siamo arrivati al 2006, a Palazzo Chigi c’è Silvio Berlusconi e una “interpretazione autentica” firmata dall’onorevole Daniela Santanchè modifica a posteriori il senso della Legge 194, così da ribaltare i procedimenti ancora in corso. Addio scatti di carriera.

Quello che il governo non aveva pensato era che parlando nella nuova norma di “maturato economico” da applicare a tutti i transitati, si sarebbe aperto un nuovo fronte per il contenzioso: da allora gli Ata ex Enti locali hanno cominciato a chiedere la restituzione del salario di produttività. Con esiti altalenanti in tribunale: diverse sentenze in Europa (della Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte di Giustizia) hanno dato torto allo Stato italiano, sancendo l’abuso fatto nei confronti dei lavoratori e illudendoli sulle possibilità di riavere i soldi perduti. Poi però gli ultimi pronunciamenti dei tribunali italiani sono stati quasi tutti sfavorevoli. Ad oggi circa 15-20mila dipendenti hanno ancora un contenzioso aperto: la maggior parte di loro ha vinto in primo grado e perso in appello. Attendono la Cassazione, e magari con l’arrivo del nuovo governo sperano che qualcuno si ricordi di loro. Ma come al solito il problema è economico, prima che giudiziario: calcolando circa 60 euro al mese non riconosciuti per 18 anni (più gli interessi), per sanare la posizione di tutti ci vorrebbero almeno 200 milioni. La battaglia non è ancora finita.

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