In tanti mi avete chiesto di parlare del blog di Area pro labour secondo cui la costituzione di una pensione complementare costituisce, allo stato attuale, quasi una necessità“. È forse cambiato qualcosa nella normativa, nei prodotti o più in generale nella realtà? Non è certo sostanziale la modifica alla percentuale minima di Tfr da destinare a fondi pensione e simili contenuta nella legge per la concorrenza del 2017; e comunque non ancora operativa.

In effetti rimane confermato tutto quanto pubblicato in numerosi articoli su Il Fatto Quotidiano e post del mio blog, ovvero che fondi pensione, piani individuali pensionistici (pip) e polizze vita previdenziali, di regola sono tutti da evitare, salvo tutt’al più per chi ha una passione per i rischi finanziari, associata a una fiducia cieca nell’onestà di gestori, amministratori, intermediari ecc.

Può però essere utile riassumere e ribadire i tanti pericoli, difetti e limiti dei fondi pensione e in generale di tutta la previdenza integrativa. Se in futuro cambierà, riprenderemo il discorso. Ma per come stanno attualmente le cose, il discorso è chiuso. Infatti essa è:

1. senza garanzie reali, cioè nei confronti dell’inflazione, perché neppure i comparti cosiddetti garantiti assicurano il potere d’acquisto del capitale o della rendita futuri (vedi articolo);

2. rischiosa, perché esposta agli andamenti dei mercati finanziari;

3. opaca, perché non si ha nessun diritto di conoscere cosa i fondi e i pip hanno comprato o venduto, né quando né a che prezzi;

4. esposta alle malversazioni, perché senza trasparenza non è possibile scoprire eventuali imbrogli, ruberie ecc.

5. non conveniente, perché il vantaggio fiscale si ribalta facilmente in perdita per gli alti costi (vedi articolo);

6. viziata da conflitti d’interesse, perché gli imprenditori hanno voce in capitolo per convogliare fino al 30% dei fondi chiusi verso aziende che vogliono aiutare, magari decotte;

Tali caratteristiche la rendono sconsigliabile ai fini previdenziali. Viceversa il Tfr è:

1. sicuro, perché le somme accantonate non scendono mai, caratteristica che il Tfr ha in comune solo coi buoni fruttiferi postali;

2. difensivo, perché agganciato all’inflazione;

3. trasparente, perché la formula di rivalutazione è fissata dal codice civile (art. 2120);

4. senza costi, perché privo di qualsivoglia intermediazione fra lavoratore e azienda;

5. ideale per una rendita integrativa, perché il capitale è convertibile in una rendita vitalizia.

La previdenza integrativa o complementare (è la stessa cosa) non è affatto necessaria, ma al contrario da evitare. Nulla da ridire invece sulle considerazioni prettamente giuridiche nel caso di omessi versamenti nei fondi pensione da parte dei datori di lavoro, che costituiscono la seconda parte del post di Area pro labour.

Molto da ridire però sull’affermazione che in caso di azienda con meno di 50 dipendenti, se il lavoratore non opta per i fondi complementari, il Tfr rimane in azienda, perché non è vero. Se entro sei mesi il neo-assunto semplicemente non opta per i fondi complementari il suo Tfr finisce nella previdenza integrativa per l’automatismo noto come silenzio assenso. Al riguardo il decreto legislativo n. 252/2005 e la sua applicazione non fanno nessuna distinzione a seconda del numero dei dipendenti, contrariamente a quanto scritto nel post. Bisogna richiedere in tempo in modo esplicito e conviene farlo, che il Tfr rimanga in azienda o (più precisamente) resti regolato dall’art. 2120 del codice civile.

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