Quando Christine Delphy ricorda il 26 agosto 1970, mette le mani a cono sulla la bocca e fa il verso alle sirene della polizia: «Papoo, papoo». Arrestarono lei e le compagne sotto l’Arco di Trionfo a Parigi: portavano fiori alla moglie del milite ignoto (più ignota di lui, diranno) e finirono sui giornali. Sono passati quasi 50 anni e non smette di ridere. Sociologa, femminista materialista e figlia del Maggio ’68, combatte i suoi 76 anni coltivando uno dei sentimenti che ritiene più preziosi: la rabbia. «Non conosco altro modo per liberarsi. Le donne oggi non sono abbastanza arrabbiate». Nascosta in un villaggio nel sud della Francia, per trovarla servono due treni e un’auto. Sul futuro? Risponde con le nubi nere negli occhi, ma le parole di chi sa da dove cominciare. Tra le fondatrici del Movimento di liberazione delle donne, ricorda le assemblee a fianco di Simone de Beauvoir, i seminari sull’orgasmo femminile e la finta liberazione sessuale di corpi che dovevano dire solo sì. Scrisse “L’Ennemi Principal” (in uscita nel 2018 per Mimesis, a cura di Vincenza Perilli e Sara Garbagnoli) e teorizzò l’oppressione delle donne come gruppo sociale. Ne sono seguiti anni di lotte, vittorie e sconfitte. E una convinzione: «Ci vuole tempo».

Immagini dal documentario di F. e S. Tissot “Je ne suis pas féministe, mais…”

Christine, femminista materialista e lesbica…
Una strega, direste in Italia.

Perché la difesa delle donne?
Ho sempre avuto dentro un sentimento di ingiustizia. A 11 anni chiesi a un’amica: “Perché le mogli allacciano le scarpe dei mariti?”. Rispose: “Perché li amano”. Non mi convinse.

In casa cosa le dicevano?
Non ho fratelli e così ho ricevuto il sostegno destinato al figlio maschio. Ma mio padre diceva “non essere femminista”, come se fosse una cosa sporca. E io iniziavo tutte le frasi rivendicative con “non sono femminista, ma”.

Dove impara la militanza?
Negli anni ’60, da studentessa a Chicago e Berkley. E poi a Washington dove ho lavorato per la National Urban League, la più vecchia associazione per i diritti dei neri.

Prove di rivoluzione…
Sì, ma non ero a mio agio. Ci furono almeno due uomini, tra cui il direttore, che mi fecero avance sessuali. Lavoravo per loro, e intanto approfittavano del fatto che fossi una donna. Così ho deciso: non avrei mai più lottato per un gruppo che non fosse il mio.

Esagera?
No. Però è stata un’esperienza importante: ho iniziato a ragionare in termini di oppressione, a capire cos’è il razzismo e che questo può colpire anche le donne.

Quindi che cosa ha fatto? Tornata a Parigi ho confessato a un’amica quello che non osavo dire a nessuno per non sembrare pazza: fare un Movimento delle donne come quello dei neri negli Stati Uniti. Era il 1965 ed era una cosa impensabile.

E lì arrivò il maggio 1968…
Per me fu una sorpresa. Una sera, all’uscita dal lavoro, fui bloccata dalla polizia: vidi gli agenti colpire le persone come bestie selvagge. Avremmo potuto morire: ho avuto paura.

E dopo la paura?
Smisi di andare a lavorare ed entrai in un comité d’action. Conobbi la femminista Jacqueline Feldman: fu come la discesa di Cristo sulla Terra. Cominciai a frequentare il gruppo che si chiamava Féminin, masculin, avenir. Subito si fece una differenza tra il gruppo che sarebbe diventato quello differenzialista, Psychépo, e noi che ci chiamavamo prima rivoluzionarie e poi radicali.

L’impensabile è diventato pensabile…
Grazie al ’68 che ha dimostrato che esiste la democrazia e un altro modo di pensare il potere. Ma si è dissolto come un sogno. Tutti quelli che c’erano e poi lo hanno rinnegato per me sono cani.

Per voi però fu un inizio…
Il 26 agosto 1970 decidemmo di portare simbolicamente dei fiori all’Arco di Trionfo alla moglie del milite ignoto. Perché ancora più ignoto di lui, c’è la moglie. Io tenevo una ghirlanda più grande di me e quando il poliziotto mi prese per un braccio credevo volesse aiutarmi. Invece ci arrestarono. Fu una scena bellissima. Eravamo solo in nove, davanti a decine di agenti. Arrivarono a sirene spiegate e noi ci mettemmo a fare loro il verso (ride). Gridarono: “Ma non vi vergognate?”. Che ridere. I giornali titolarono: Movimento di liberazione della donna. Noi lo abbiamo declinato al plurale, le donne, e in questo modo è nato il Mlf.

Fu l’inizio anche di una rivoluzione sessuale?
Non proprio, perché era pensata dagli uomini. Le donne avevano la libertà di dire sì, ma non quella di rifiutarsi. Dovevano essere pronte a fare sesso con tutti e soddisfare i loro capricci, in nome di una specie di liberazione.

Come cambiò la sessualità per voi?
Un giorno io e un’amica andammo alla Sorbona occupata per tenere un seminario sull’orgasmo, a partire dalle teorie di Masters and Johnson sulla stimolazione del clitoride. Fu commovente. Ricevemmo messaggi di ogni tipo: una signora disse di aver camminato tutta la notte per Parigi sotto choc, altre litigarono con i mariti che le definivano anormali perché non raggiungevano il piacere solo con la penetrazione. Finalmente sapevamo che non era colpa loro.

50 anni dopo dove siamo?
La sessualità è una sfera importante della lotta contro la dominazione dell’uomo e c’è tanto ancora da fare. Ad esempio ci sono ricerche che dicono che la donna deve allenare il perineo per avere più facilmente l’orgasmo. Perché? Basta spiegare agli uomini che devono stimolare il clitoride.

E la fellatio è anti-femminista?
Per molte è un’umiliazione. Fa parte dell’erotismo maschile, quello della pornografia: ovvero la descrizione delle mortificazioni che si vogliono imporre alle donne.

Oggi ci sono anche registe del porno…
Possibile. Ma sono artigiane di una cultura di dominazione.

Da dove nasce l’oppressione?
Io ritengo che il lavoro domestico non remunerato sia la base economica dell’oppressione delle donne. Così si costituiscono in classe: abbiamo un gruppo che sfrutta e l’altro sfruttato. Per i marxisti è un lavoro che non ha valore, ma non sono d’accordo. Le femministe propongono una negoziazione con il marito, ma non basta.

Perché?
In questo sistema di diseguaglianza è coinvolto lo Stato. Dalle tasse alle pensioni, si perpetua la dipendenza della moglie rispetto al marito. Un esempio? Il congedo parentale: è facoltativo e di pochi giorni per l’uomo, obbligatorio per la donna di 6 mesi. La soluzione è renderlo obbligatorio per entrambi. Qui si vede la collusione del capitalismo con il patriarcato.

Ancora il patriarcato?
Si è evoluto, ma è sempre lì.

Dopo il ’68 decidete che il gruppo non deve essere misto…
Ci possono essere uomini pro-femministe, ma la lotta contro i dominanti non si può fare al loro fianco.

I pensieri finiscono stampati…
A un certo punto sentimmo il bisogno di avere uno spazio che ospitasse interventi lunghi e teorici sul tema. Così nacque la rivista Questions féministes.

Con una direttrice di pubblicazione d’eccezione: Simone de Beauvoir…
Ci sostenne fin dall’inizio. La contattarono le compagne, io non avrei mai osato. Non le restava molto da vivere e la sua preoccupazione era far uscire le ultime opere di Sartre.

Che femminista era?
Era un monumento per noi, ma di fatto restava una semplice militante. Nel 1972 abbiamo fatto una prima grande manifestazione per l’aborto e lei era con noi seduta per terra a seguire i dibattiti. Ci incontravamo a casa sua per le riunioni. Aveva una gestione del tempo straordinaria e pretendeva massima puntualità. Era un po’ intimidatoria. Ma aveva un’intelligenza incredibile e con noi è stata molto protettiva.

In che senso?
Non ha mai preteso di essere leader, ascoltava e dava il suo parere con grande modestia come se fosse quello di chiunque altro. Nutrivamo per lei rispetto e ammirazione. Il suo libro, Le Deuxième Sexe, ci aveva aperto gli occhi: era stata una rivelazione, uno choc. Il Movimento l’ha aiutata molto mentre Sartre stava per morire: vedeva che era stata utile e che le persone la amavano. Nel libro diceva che non poteva esserci una lotta di donne, ma evidentemente si era sbagliata: in quel momento stava succedendo quello che non aveva previsto.

Fu succube di Sartre?
Non è mai stata una relazione di uguaglianza, non è possibile tra un superiore e un inferiore. Anche se lui teneva molto al suo parere: erano, uno per l’altro, i primi lettori. Il più grande segno di considerazione reciproca.

Ad un certo punto ci fu una scissione nella rivista.
Le lesbiche radicali attaccarono le eterosessuali dicendo che erano le kapo del femminismo. Io, da lesbica, non ero d’accordo: non possiamo fare un Movimento senza le eterosessuali che sono la maggioranza. Quindi abbiamo fondato Nouvelles Questions Féministes e Simone de Beauvoir ci sostenne ancora.

Da lesbica si è mai sentita discriminata?
Sono stata molto paziente. Ce n’è voluto per vedere manifesti sulle compagne omosessuali. Ma era difficile: gli uomini per screditarci dicevano che eravamo tutte lesbiche e il movimento preferiva non parlarne. Serve tempo.

E il tempo portò una prima vittoria: la legge sull’aborto del 1975…
Sapevo che ce l’avremmo fatta perché riguardava anche gli uomini. Noi femministe abbiamo lanciato la battaglia, poi ci furono attivisti che organizzarono aborti nelle piazze chiamando la stampa. Per questo passò la legge: c’erano in ballo la vita delle donne e la legalità. Ma è una vittoria che ogni giorno viene messa in discussione.

Tra le sue lotte c’è anche quella contro la prostituzione…
Che non significa che lotto contro le prostitute. Io sono per la penalizzazione dei clienti.

Non sono libera di vendere il mio corpo?
Sì. Ma è una scelta condizionata da bisogni economici e da una cultura di dominazione. Non vediamo quasi mai casi di prostituzione individuale senza degli sfruttatori dietro.

E se viene autorizzata?
Si creano i bordelli. E nelle camere è sempre previsto un bottone per il panico, segno che non sono luoghi così sicuri. I bisogni sessuali degli uomini non sono speciali da giustificare la necessità di avere a disposizione una vagina per darsi sollievo: si possono masturbare ovunque e quando serve. O prendersi un bel calmante.

A proposito di corpi, lei che ne pensa della pratica dell’utero in affitto?
Non ho ancora un parere. La donna ha diritto di separarsi dal bambino che partorisce: se diciamo che non può per una sorta di legame, stiamo togliendo un diritto.

Lei si è anche schierata contro la legge francese del 2004 che vieta il velo nelle scuole…
La ritengo razzista e islamofobica, così come chi la difende. Ma soprattutto è discriminatoria: va contro la libertà di coscienza e di espressione in privato e in pubblico.

Non è un simbolo di oppressione?
Così ci raccontano, ma cosa ne sappiamo? I genitori hanno il diritto di far crescere i bambini secondo le loro credenze religiose. Se possono i cristiani, così anche i musulmani. Io credo sia un simbolo di oppressione, ma ce ne sono altri che accettiamo. Su questo c’è stata una rottura tra me e il Movimento femminista.

Un femminismo islamico è possibile?
Perché no? C’è una nuova generazione che cerca un altro Islam e che vuole trovare nella sua cultura il modo di rigettare la dominazione maschile. Laicità è lasciare liberi i cittadini di pensare ed esprimere quello che vogliono.

Cosa ne pensa di chi ci governa?
Penso che sia un club per soli uomini. E le quote rosa non bastano. Il presidente Macron ad esempio proclama la parità, ma i suoi di fiducia sono solo uomini. Lui si crede un re. Il giorno dell’insediamento ha detto: io vi proteggerò. Lui. Non la Costituzione o lo Stato. Spaventoso.

Il femminismo è di sinistra o destra?
Deve essere indipendente. Perché l’una e l’altra sono organizzazioni di uomini: non mi fido.

Su cosa devono lottare le femministe?
Sulle diseguaglianze di salario, professionali e contro il lavoro domestico non retribuito. Poi la violenza: noi non ci rendevamo conto a che punto fosse diffusa, gli stupratori sono le milizie del patriarcato. Infine la maternità: è un diritto per le donne anche decidere di non fare figli.

E gli uomini?
Perché le cose cambino devono perdere privilegi. Ci vogliono far credere che in questa lotta tutti vinceranno, ma non è possibile.

Ha fiducia nel futuro?
Non per forza. Tante lotte sono state iniziate e poi abbandonate. Il progresso non va avanti da solo.

Le femministe sono sempre arrabbiate?
Io lo sono. Le donne secondo me non lo sono abbastanza. Se ci si vuole liberare bisogna essere arrabbiati. Non conosco altri modi.

Twitter @martcasti

Articolo Precedente

Xenofobia, dieci punti per cui in Italia (e non solo) è un problema

next
Articolo Successivo

Migranti lgbt, ripudiati a casa e discriminati nelle strutture d’accoglienza. Arcigay: “Decreto Minniti peggiora la situazione”

next