“Un nuovo inizio, un’era di pace”. Il messaggio lasciato da Kim Jong-un sul libro degli ospiti nella Casa della Pace, sul lato sud della zona demilitarizzata, riassume al meglio lo spirito con cui venerdì si è svolto lo storico vertice intercoreano. Il terzo in ordine di tempo ma il primo ad essere ospitato dal Sud sotto l’occhio vigile della stampa internazionale. Il regno Eremita si è aperto simbolicamente al mondo lasciando le telecamere seguire passo passo il leader nordcoreano, una figura fin’oggi ammantata di mistero e cliché. Le ripetute provocazioni missilistiche dell’ultimo anno sono soltanto un ricordo lontano. Oggi è tempo di sorrisi e strette di mano. Un buon inizio che tuttavia non dissipa le incertezze sul futuro.

La dichiarazione congiunta siglata dalle due parti al termine dell’incontro riafferma il “comune obiettivo a rendere la penisola coreana libera dal nucleare attraverso una completa denuclearizzazione“. Lo step successivo sarà l’instaurazione di una pace “solida” e “permanente”, in grado di mettere formalmente fine alla guerra sospesa nel 1953 con la proclamazione di un armistizio, che ha visto coinvolti Cina e Stati Uniti, all’epoca impegnati su fronti opposti a sostenere rispettivamente il Nord e il Sud. Questo vuol dire che un trattato di pace necessita la collaborazione di Washington e Pechino, come attesta il conclamato impegno ad avviare colloqui a tre o a quattro, versione ridimensionata degli storici “tavoli a sei” a cui parteciparono senza troppo successo anche Giappone e Russia prima del ritiro nordcoreano nel 2009.

La scelta strategica con cui negli ultimi mesi Kim Jong-un ha avviato trattative a porte chiuse con l’establishment cinese e americano si inserisce quindi in un processo di normalizzazione delle relazioni tra Pyongyang e il mondo con chiare finalità di politica interna. Una progressiva distensione nella penisola coreana (dove gli Usa sono ancora presenti militarmente), l’ottenimento di un alleggerimento delle sanzioni internazionali, la concessione di aiuti economici e l’implicito riconoscimento della Corea del Nord come potenza nucleare, è quanto presumibilmente Kim spera di portare a casa con il suo debutto sotto i riflettori internazionali da una nuova inedita posizione di forza. I morsi delle sanzioni – che nei primi tre mesi del 2018 hanno affossato gli scambi commerciali con la Cina del 60% – si fanno infatti sentire con tempismo perfetto, proprio ora che il Regno Eremita considera completato il proprio programma nucleare.

Annunciando alcuni giorni fa la sospensione dei test nucleari e missilistici e lo smantellamento del sito di Punggye-ri – utilizzato da Pyongyang per testare i suoi ordigni e che gli esperti ritengono gravemente danneggiato dall’ultima più potente detonazione – il leader nordcoreano ha sottolineato il pieno raggiungimento dello status di potenza nucleare, uno dei due pilastri del byungjin, la linea politica lanciata nel 2013 che prevede lo sviluppo parallelo dell’atomica e dell’economia.

Secondo la logica nordcoreana, la piena espansione del proprio arsenale rende superflua una continuazione dei test. Ma questo non implica necessariamente un endorsement a quanto richiesto dalle Nazioni Unite nelle varie risoluzioni di condanna seguite al primo test nucleare del 2006: ovvero lo “smantellamento completo, verificabile, irreversibile del programma nordcoreano”. Né chiarisce la posizione di Pyongyang in merito alla presenza militare americana al Sud (dove Washington tiene ancora parcheggiati circa 28mila soldati), di cui in passato è stata imposta la rimozione come precondizione per un impegno nordcoreano alla denuclearizzazione. Un punto su cui probabilmente insisterà anche la Cina, preoccupata che un’eventuale riunificazione delle due Coree possa tradursi in un riposizionamento delle truppe statunitense davanti all’uscio di casa.

I precedenti non sono incoraggianti. Nessuno dei vertici tra Nord e Sud (del 2000 e 2007) è stato in grado di frenare la corsa agli armamenti del Regno Eremita – l’ultima grande beffa risale al 2012, quando la moratoria sui test missilistici, raggiunta nell’ambito del cosiddetto “Leap Day deal“, si è conclusa con il lancio di “un satellite” appena sei settimane dopo. L’ipotesi che il regime nordcoreano sia disposto a barattare la deterrenza nucleare accumulata negli ultimi decenni per fronteggiare una possibile invasione americana rimane un’eventualità dubbia ma non da escludere.

Come affermato da Kim durante il suo incontro con il presidente sudcoreano Moon Jae-in, “oggi, invece di creare risultati che non saremo in grado di realizzare come avvenuto in passato, dovremmo ottenere buoni risultati parlando francamente di questioni attuali, questioni di interesse”. Secondo quanto rivelato al New York Times da fonti sudcoreane, Washington e Seul starebbero spingendo per una deadline precisa – il 2021 – entro cui completare la denuclearizzazione.

Addolcendo la pillola, Moon ha ricordato come in passato il Sud abbia promesso incentivi economici per lo sviluppo delle infrastrutture nordcoreane in cambio di una rinuncia all’atomica. Di più. Stando all’ex ministro dell’Unificazione, Jeong Se-hyun, il disgelo tra le due Coree – se affiancato dal placet americano – potrebbe avviare un processo di apertura del Regno Eremita d’ispirazione cinese e vietnamita, in grado di assicurare la coesistenza del regime a partito unico con l’introduzione di un sistema economico capitalista. Proprio quel che ci vuole per completare l’altro pilastro del byungjin.

di China Files per il Fatto

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