Uno squarcio nell’immaginario collettivo. Una serata di irruenta umanità, durante la quale si frantuma il pregiudizio artificioso. Guardandoli sulla scena i quattro senzatetto, protagonisti sabato 21 aprile al Teatro Patologico di una kermesse sull’Inferno dantesco, si ha la misura di quanto inganno si celi dietro gli stereotipi. Per figurarseli Domenica, Angelo, Antonello e Giuseppe, rispettivamente nei ruoli di Francesca da Rimini, Pier della Vigna, Ulisse e il Conte Ugolino, occorrono altri elementi. Dettagli che nella frenesia quotidiana potrebbero sfuggire, facendo partire una voragine di pensieri alla notizia che chi hai di fronte ha perso tutto. Di sicuro quello che loro, una volta entrati a teatro, hanno mostrato di non aver perso è l’allegria. La capacità di mettersi in gioco. La dignità di raccontarsi senza filtri, mostrando quel risvolto della medaglia di una vita che scorreva “normale” e d’improvviso s’è aggrovigliata. All’incirca coetanei, tra i quaranta e i cinquant’anni. “Servirebbe un romanzo per raccontare la mia vita”, esordisce Domenica. L’unica donna del gruppo. Lunghi capelli rossi raccolti. La carnagione scura. Il sorriso che cede il passo al raccoglimento per formulare poche frasi. “Vivo anch’io come loro” – indicando i compagni – “all’ostello Don Luigi Di Liegro, quello di via Marsala”. Siamo a pochi passi dalla stazione Termini. Domenica vi è entrata il 13 dicembre di quest’anno. Lei, come gli altri, ricorda a memoria quel giorno. Prima era stata ospite di altri centri d’accoglienza per sole donne senza fissa dimora. “Ero spaventata” – dice – “me ne avevano parlato così male”. Napoletana d’origine, residente per anni a Trento. Una vita strutturata. Un lavoro statale. La famiglia e il divorzio. La casa coniugale condivisa con i figli adolescenti. “Tutto è successo nel 2010”, tira corto. Un incidente dovuto allo stress. Il giudice dà ragione all’ex marito: non è in grado di badare a se stessa. Via i figli. Via la casa. Un anno a letto per le fratture. Via pure il lavoro. All’improvviso non resta più nulla se non accogliere un lavoro in nero come badante a Roma. Parte. Ma dopo tre mesi viene licenziata su due piedi. Inizia a vagabondare.

Angelo, invece, è in via Marsala dal 2011. Un passato da animatore a Napoli. Muoiono i genitori con cui viveva. Il lavoro diminuisce. Parte per Roma con le migliori speranze. Lavoricchia ma non abbastanza. Inizia a dormire per strada. Poi scopre l’ostello della Caritas e si dedica alla biblioteca dell’alloggio. Antonello è il più reticente a parlare. A lui l’ostello proprio non piace. Una volta sul palco, va dritto al sodo. Guarda i compagni e dice: “Loro sono i miei amici”. Sardo, con gli occhi chiari. Giovane. Non vive in via Marsala stabilmente. “A volte” – rammenta – “ripenso al militare e lo rimpiango”. Poi c’è Giuseppe, sardo pure lui. Di Berchidda, tiene a precisare. È arrivato a Roma per amore. Una famiglia. Due figli. La rottura. “Mi piaceva bere il vino”, ammette. Un impiego da operaio in una fabbrica che nel 2009 chiude. I risparmi finiscono. Dal 2011 la sua casa è in via Marsala. Con loro c’è Massimo. È un artista, tengono a precisare. Lui alla Caritas va solo a mangiare. C’è una discrasia tra la ricercatezza dei loro pensieri e la loro condizione. C’è una discrasia nel vederli recitare Dante e nel saperli protagonisti di un inferno.

Eppure a spingere Dario D’Ambrosi, direttore del Teatro Patologico, a coinvolgerli è stato un impeto realistico: “Abbiamo fatto lo spettacolo La Divina Malattia, il paradiso era riservato ai ragazzi disabili. Passando per via Marsala ho pensato che chi meglio dei senzatetto avrebbe potuto interpretare l’Inferno?”. In effetti, solo pochi giorni fa è stata risanata la zona antistante all’ingresso dell’ostello di via Marsala. Prima era un inferno pure quella. Solo pochi giorni fa, i residenti sono scampati a un incendio doloso. La loro giornata inizia al mattino presto. Alle otto devono lasciare la struttura. A pranzo si va da un’altra parte. A colle Oppio. Si torna nel pomeriggio. Si dorme in stanze da 6 posti letto, 7 durante l’inverno. Quando c’è il pienone, si è in 195. Ciascuno ha un armadietto. E, forse, guardando loro, ancora più d’una speranza. A fine esibizione, mentre sollevano fieri la coppa ricevuta in segno di riconoscimento, c’è pure posto per un po’ d’ironia. “Un atto d’amore”, commenta Domenica col sorriso lucente. “O una coppa in cui versare un po’ di champagne”, dice scherzosamente Giuseppe. Di lì a poco si torna alla metropoli nella metropoli. In quel di via Marsala. Nei pressi della stazione Termini. Dove un tempo, oramai lontano, con una valigia piena di sogni, erano giunti per la prima volta anche loro.

Articolo Precedente

Soffriamo di aporofobia, la paura dei poveri

next
Articolo Successivo

Storia dell’omosessualità all’Università di Torino, tre motivi per cui tutti vogliono studiarla

next