di Derek

Di tanto in tanto esce uno scandalo che riguarda l’uso che viene fatto dei nostri dati su Internet e il mondo sembra cadere nello sconcerto. E ogni volta io mi chiedo se ci siamo o ci facciamo.

Lo sanno anche i muri che ciascuno dei nostri comportamenti digitali lascia un segno in rete. Forse agli albori piano piano sbiadiva senza che nessuno se ne curasse, ma da tanti anni ormai sappiamo bene che questa traccia viene letta, archiviata, catalogata, elaborata, rivenduta. Google, Facebook e compagnia bella non fanno soldi nel “regalarci” piattaforme in cui possiamo mettere le nostre foto, litigare coi nostri amici, scoprirci Nobel per la pace, per la scienza, la letteratura. Se davvero lo pensassimo saremmo degli stupidi.

Loro si nutrono di noi e affinano i loro algoritmi per conoscerci sempre meglio, per poter prevedere – e indurre (?) – i nostri bisogni e le nostre emozioni, suggerendoci quindi questo o quel prodotto. Davvero qualcuno ha pensato che il progetto di Mark Zuckerberg di collegare a Internet tutti i paesi poveri fosse filantropia?

L’arrivo degli smartphone ha dato a queste aziende nuove risorse. Ora possono studiarci non solo per quello che cerchiamo in rete o che scriviamo, ma per come ci comportiamo. Sanno in tempo reale dove siamo. Possono interpretare i nostri gusti magari se stiamo dieci secondi davanti a una determinata vetrina piuttosto che a un’altra, se facciamo colazione in quel bar e non in quello dall’altro lato della strada.

Il cerchio però deve ancora chiudersi: entro qualche anno con l’implementazione dell’internet nelle case sapranno che temperatura teniamo in casa, cosa c’è dentro il nostro frigorifero, quante lavatrici facciamo di cotone e quante di lana. Questo è il mondo in cui già viviamo. Stupirci quindi se ci arriva la pubblicità di un ammorbidente piuttosto che di uno smacchiatore proprio quando il flacone si sta svuotando lo troverei ipocrita.

Forse siamo portati ad accettare che la nostra routine possa essere sfruttata a livello commerciale, mentre facciamo più fatica ad accettare che la nostra vita possa essere studiata per cercare di condizionarci quando mettiamo una “x” su una scheda elettorale. Lo stupore però non regge. Siamo un prodotto, per il mercato e per la politica. I due mondi per altro sono contigui se non sovrapposti. È in momenti come questo che si invocano leggi, sanzioni, controlli per tutelarci. Tutto giusto, ma credo abbastanza idealistico. Internet non è uno strumento, è un ecosistema vastissimo, mellifluo, informe.

Una mia amica mi fa notare: “Possediamo tutti un’auto, e non rinunciamo a usarla. Ci siamo dati regole di circolazione e di costruzione e controllo. All’inizio si circolava senza regole. Ora occorre inserire regole per i social. Il punto non è ‘se’ ma ‘quali'”. Quali regole vogliamo darci?

Qualche anno fa hanno stabilito che l’utente deve accettare l’utilizzo dei cookie per navigare in un determinato sito. Oggi quindi ogni volta che ci imbattiamo in un sito che li utilizza o clicchiamo “ok” o non proseguiamo. Qualcuno ha mai chiuso la finestra senza proseguire o ha letto davvero tutta l’informativa sull’utilizzo dei cookie in quel determinato contesto? Questo secondo me è un piccolo esempio di regole create per tutelarci che di fatto non hanno cambiato nulla se non forse il fatto di dire “hai dato il consenso quindi sei consapevole”.

Io temo quindi che il parallelismo con l’avvento delle auto (ahi noi) non regga. Il problema non sta in chi e come guida, ma in chi costruisce le vetture, gli autovelox, le strade, in chi paga gli ausiliari, etc: questi –pochissimi – soggetti mentre noi discutiamo sono probabilmente tutti insieme fare colazione da Starbucks ridendo alle nostre spalle.

Ma quindi come ci possiamo difendere?

Secondo me possiamo solo – prendendo coscienza della situazione – cercare di limitare i danni e continuare a bere il cappuccino dal nostro barista preferito: il giorno in cui preferiremo il frappuccino avremo definitivamente perso ogni speranza.

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