Passati i festeggiamenti per i cinque anni di regno, la domanda non è: dove sta Francesco? Ma piuttosto: dove sta la Chiesa?

Jorge Mario Bergoglio si è già conquistato un posto nella storia per il suo slancio profetico in campo religioso e per la sua leadership morale sulla scena geopolitica. Nel panorama di leader, che nel migliore dei casi vedono soltanto l’obiettivo della propria nazione, Francesco spicca per lungimiranza. Ha capito prima di tutti il significato epocale delle migrazioni di massa da un continente all’altro, impossibili da affrontare solo con muri. La sua voce scuote l’opinione pubblica affinché non chiuda gli occhi dinanzi all’abisso delle disuguaglianze e all’intreccio perverso tra degrado della natura e degrado sociale.

Instancabile il pontefice argentino continua a ricordare, infine, che le lacerazioni della Terza guerra mondiale a brandelli non si sanano con azioni unilaterali – ma solo con lo sforzo congiunto della principali potenze – se non si vogliono ripetere le esperienze rovinose dell’Afghanistan e dell’Iraq o delle macerie che segnano la Siria.

Egualmente in campo religioso Bergoglio si è già conquistato un posto nella storia. Per avere rimodellato il ruolo papale, spogliandolo di ogni presunzione imperiale. Per avere liberato la Chiesa cattolica dalle ossessioni in tema di etica sessuale (la pillola, le convivenze, le unioni dopo un divorzio, i rapporti omosessuali). Per avere proposto una Chiesa, che con il messaggio evangelico accompagna uomini e donne nella loro esistenza come “ospedale da campo” e non come poliziotto repressivo. Per avere riscoperto il volto di un Dio misericordioso…

Diversa è la situazione interna alla Chiesa cattolica, che rimane un “impero” di un miliardo e trecento milioni di affiliati. In questa massa-sistema Francesco e il suo seguito di vescovi, preti, suore e fedeli impegnati nelle riforme sono tuttora un’avanguardia. Sebbene ci sia chi si affanni a definire l’opposizione a Francesco come una “rumorosa minoranza fatta di pochi”, la realtà è diversa: c’è un nucleo solido di conservatori (tra un quinto e un terzo dell’area ecclesiale), che non concorda assolutamente con le svolte di Francesco (di cui la comunione ai divorziati risposati è solo l’esempio simbolico più rilevante).

E poi c’è una vasta palude di quadri ecclesiastici, ancorati alla routine, fermi al “si è sempre fatto così”, impauriti dalle novità e terrorizzati dalla prospettiva di perdere una presunta supremazia ideologica rispetto alle altre confessioni cristiane e religioni del mondo. Quando Francesco sottolinea, rivolgendosi ai seguaci di altre fedi o dell’ateismo o dell’agnosticismo, che in ultima analisi “tutti siamo figli di Dio”, l’area conservatrice e le schiere della palude rimangono scosse e sentono crollare secolari certezze. E’ un sentimento umano, che nei momenti di netta svolta si ritrova in ogni società politica o religiosa. Questo sentimento produce le ondate aggressive di delegittimazione, che da due anni colpiscono inesorabilmente il pontificato. Del medesimo sentimento si nutre una resistenza passiva, silenziosa e testarda, ancora più pericolosa e diffusa dell’opposizione aperta.

E’ un chiaro segnale di allarme il fatto che nell’attuale tornante il pontefice emerito Benedetto abbia sentito il bisogno di intervenire in difesa di Francesco, criticando apertamente lo “stolto pregiudizio” di coloro che negano dignità teologica alle posizioni del papa regnante. L’intervento di Benedetto non è stato un mero gesto di cortesia, ma un atto di soccorso. Ratzinger è sceso in soccorso del successore, perché è sotto gli occhi di tutti che la campagna di delegittimazione contro di lui ha raggiunto un’asprezza senza precedenti, incomparabilmente più pericolosa delle contestazioni anche clamorose che hanno accompagnato certe decisioni di Paolo VI o Giovanni Paolo II.

Propagandare incessantemente l’immagine di Francesco quale pontefice eretico o ignorante di teologia o confusionario o ingenuamente incline a scivolare nel relativismo (come si grida o si mormora nel fronte antibergogliano) è la ragion d’essere di un Tea Party Movement all’interno del cattolicesimo. Un coacervo che punta a fare impantanare la dinamica del pontificato di Bergoglio. “Questo non è un pontificato nice, carino, ma è un pontificato drammatico in cui ci sono cardinali che attaccano il Papa e atei che lo sostengono”, ha ammesso recentemente padre Antonio Spadaro direttore di Civiltà Cattolica. Ratzinger, il predecessore, lo ha capito e sebbene non abbia smesso la sua visione pessimista della barca della Chiesa “a rischio di rovesciarsi”, ha avvertito l’urgenza di arrivare in aiuto a Francesco per il senso altissimo che ha del papato-istituzione.

Come già al momento delle dimissioni, Ratzinger dimostra nei momenti cruciali la chiaroveggenza di chi intende salvaguardare anzitutto il futuro della Chiesa. Resta tuttavia l’inerzia di larga parte dell’organizzazione ecclesiale. Non si sentono voci di rilievo a sostegno a della strategia riformatrice di Francesco. Non si sentono personalità cattoliche pronte a contestare la campagna di delegittimazione. Le conferenze episcopali si muovono con esasperante lentezza. Dalle conferenze episcopali non è venuto l’impulso a concretizzare la linea di tolleranza zero contro gli abusi sessuali con l’unico strumento efficace: la regola per cui il vescovo ha l’obbligo di denunciare il prete-predatore all’autorità giudiziaria. Dalle conferenze episcopali non viene la spinta a inserire le donne ai livelli alti di responsabilità nelle istituzioni della Chiesa.

Dalla Curia non viene la richiesta a nominare un nuovo Revisore generale dei conti per garantire massima trasparenza.

Sì, è un pontificato drammatico.

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