Ricorrono quest’anno i cinquant’anni del Sessantotto. Il giusto tempo per un bilancio, forse. Senza perifrasi edulcoranti, ritengo il Sessantotto l’anno verosimilmente più sciagurato della storia recente. Si è trattato di un colossale miraggio collettivo: che ha indotto i suoi stessi fautori a scambiare per lotta in nome dell’emancipazione comunista quella che, in realtà, era una vicenda interna di ammodernamento del capitalismo. Che stava trasformando se stesso, da capitalismo fordista di destra, in società a consumo illimitato di sinistra. Dal capitalismo di gendarmeria e nazionalismo si passava al capitalismo della liberalizzazione integrale del reale e del simbolico, dove tutto è possibile purché si sia in grado di comprarlo purché ve ne sia sempre di più.

Il Sessantotto non fu contro il capitale, ma contro la classe borghese e i suoi valori: etica del limite, autorità, figura del padre, religione della trascendenza, comunità tradizionale. Furono queste determinazioni a essere criticate dai sessantottini ben più del nesso di forza classista e asimmetrico del capitale. E infatti – come estesamente ho mostrato nel mio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo (Bompiani) – ne scaturì non la fine del capitale, ma la fine del mondo borghese: ciò che rafforzò il capitale, ora liberatosi di quei valori (limite, padre, autorità, religione, ecc.) con i quali fino ad allora aveva convissuto e che ora erano divenuti insopportabili ostacoli per il capitale stesso, ancor prima che per i sessantottini.

Il Sessantotto, in quest’ottica, fu il transito dal capitalismo moderno borghese al capitalismo postmoderno e postborghese a consumo illimitato e a mercificazione smisurata. Non esiste l’autorità. Vietato vietare. Godiamo illimitatamente. Ecco i motti antiborghesi del Sessantotto, pienamente attuati nella società capitalistica a libero costume e a libero consumo illimitati. Se ne accorse Pasolini in Italia, Clouscard in Francia.

Il Sessantotto, dunque, come emancipazione non dal, bensì del capitale. Che per tutto trasformare in merce, doveva abbattere ogni autorità e ogni figura del limite ancora sussistenti. Dal Sessantotto derivò non il sol dell’avvenire comunista, ma la società finanziarizzata in cui tutto (uteri e bambini compresi) è merce disponibile, della quale siamo abitatori. Dal Sessantotto, lo sappiamo, l’emancipazione cessa di essere intesa come marxian-gramsciana lotta per l’emancipazione sociale dei subalterni e come leniniana lotta contro l’imperialismo atlantista. Diventa lotta per la liberalizzazione integrale a beneficio dell’individuo ingigantito nietzscheanamente ad atomo a volontà di potenza illimitata.

Da Marx a Nietzsche, dalla rivoluzione emancipativa al martello nichilistico. Il diritto al libero spinello e al libero rapporto sessuale divengono, in tal guisa, il non plus ultra della libertà. E della classe operaia e dei popoli oppressi dell’imperialismo non importa più nulla a nessuno. Così è ancor oggi, nell’odierno tempo della miseria post sessantottino.

Per non tacere, poi, della generazione del Sessantotto, una generazione di avvelenatori dei pozzi in cui essi stessi ebbero a bere: per un verso, costoro hanno trasformato il loro fallimento generazionale in una metafisica della sconfitta permanente rivolta ai giovani (“non provate mai più a cambiare il mondo!”). Per un altro verso, sono disinvoltamente transitati – mettete liberamente voi i nomi – dall’universalismo comunista emancipativo al nuovo universalismo dei bombardamenti umanitari e dell’imperialismo etico. Insomma, il Sessantotto fu una sciagura di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. In termini marxiani, fu insieme una tragedia e una farsa.

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