Niente più gare al ribasso sulle spalle dei lavoratori dei call center. Ma solo quelli che partecipano agli appalti pubblici. Con la firma del decreto direttoriale del ministero del Lavoro, lo scorso 29 dicembre, è stato fissato il costo del lavoro dei dipendenti dei call center in outsourcing: si va da un minimo di circa 17 euro a un massimo di circa 45 euro l’ora a seconda dei vari livelli. Si tratta di un passo in avanti, anche perché questo costo viene scorporato dal valore totale nelle gare della pubblica amministrazione. Sulla carta l’effetto dovrebbe essere quello di mettere un freno alle gare al massimo ribasso per assicurarsi gli appalti. Ma i sindacati ora puntano ai soggetti privati che utilizzano call center, per i quali ad oggi non c’è alcun obbligo. Si va dagli ex monopolisti di Stato fino alle banche e alle assicurazioni. “L’emanazione del decreto è un passo in avanti, ma bisogna avere la piena consapevolezza che non si tratta del passo risolutivo”, spiega a ilfattoquotidiano.it Marco Del Cimmuto, segretario nazionale Tlc Slc Cgil. I problemi che negli ultimi anni hanno portato alla crisi di diverse aziende di call center restano. Il caso più noto è quello di Almaviva Contact, ma non è il solo. Il settore ha bisogno da anni di una qualificazione diversa del personale e di maggiori garanzie

Solo pochi giorni fa il Tribunale del Lavoro di Roma ha accolto il ricorso presentato dalla Slc Cgil di Roma e del Lazio contro il trasferimento a Catania dei 153 lavoratori licenziati da Almaviva Contact e reintegrati lo scorso 16 novembre con un’ordinanza  del tribunale di Roma. Un braccio di ferro, quello tra l’azienda e il sindacato, tuttora in corso. Che impone una riflessione più ampia, anche sulla novità del decreto appena approvato. “Le tabelle sono vincolanti per le gare pubbliche – aggiunge – e dal punto di vista della committenza il pubblico rappresenta solo una parte, neanche tanto consistente”. La novità riguarda circa 30mila lavoratori, quelli dei call center che partecipano agli appalti pubblici, su un totale di circa 80mila. Più del 60%, insomma, resta fuori.

IL COSTO MEDIO DEL LAVORO – Il decreto direttoriale era atteso da un anno, ossia da quanto la Legge di bilancio 2017 affidava al ministero del Lavoro la definizione della tabella ora consultabile, insieme al decreto stesso, sul sito istituzionale del dicastero. Il testo prevede un costo medio orario che, per i diversi livelli, varia da un minimo di circa 17 euro l’ora a un massimo di circa 45, per un costo totale annuo tra 23.800 e 45.058 euro. Come stabilito nel Decreto-legge 83/2012 (modificato con la legge di Bilancio dello scorso anno) sono queste le cifre a cui si dovrà fare riferimento nelle gare di appalto di enti statali che aggiudicano servizi di call center. “Considerato che di fatto la totalità degli affidamenti sono svolti con il sistema del ‘costo a minuto di conversazione’ – hanno ricordato i sindacati – ora le gare dovranno tener conto di un costo del lavoro non inferiore ai valori stabiliti nell’accordo e dal decreto pari, ad esempio, a 0,4282 euro minuto per un lavoratore di 3° livello (operatore di call center) che è la figura cardine nei capitolati d’appalto”. Per un costo annuo di 30.140 euro.

LA CONTRATTAZIONE SINDACALE – Cifre non più decise dall’impresa che aggiudica l’appalto, ma stabilite con un accordo frutto della contrattazione sindacale. Lo scomputo del costo del personale dalle offerte e la necessità di determinarlo sulla base di un accordo con i sindacati sono due elementi fondamentali, considerando che nel settore dei call center, con il suo sistema di subappalti, è proprio il costo della manodopera a incidere per oltre l’80% su quello totale. Un passaggio fortemente voluto dalle parti sociali che chiedevano valori certi di riferimento per le gare. Il calo dei ricavi, dovuti a sconti troppo aggressivi, ha infatti portato a diverse crisi in un settore in difficoltà. Si va da Almaviva con i suoi 7.500 dipendenti solo in Italia (altri 10mila all’estero). A Milano l’azienda aveva disposto il trasferimento (poi bloccato) nella sede di Rende (Cosenza) per 65 dipendenti, mentre a Roma una situazione analoga ha riguardato 43 lavoratrici madri. Senza parlare del licenziamento dei 1.666 dipendenti della sede romana, che oggi non esiste più. Poi c’è stata la vicenda della Call & Call a Locri con l’annuncio del licenziamento per 129 dipendenti. Nel 2017 c’è stata anche la crisi legata al call center tarantino (1600 addetti) della multinazionale francese Teleperformance a causa di un buco da 7 milioni di euro. In Italia circa 80mila persone lavorano nei call center. Si tratta di un mercato che oggi tende però alla concentrazione. Basti pensare alla fusione, lo scorso anno, tra Visiant e Contacta, che hanno dato vita a Covisian. Il fatturato delle prime dieci aziende del settore copre il 56% dei ricavi totali.

UN PASSO IN AVANTI, MA NON RISOLUTIVO – “Crediamo che, dopo l’accordo di settore del 2016 che ha introdotto la ‘clausola sociale’, con l’intesa raggiunta e il decreto appena emanato – hanno commentato in una una nota congiunta le segreterie nazionali di Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil – si compia oggi un altro importante passo in avanti per il settore dei call center in outsourcing in quanto, stabilendo a norma di legge valori obbligatori per il calcolo del costo del lavoro nelle gare pubbliche, che auspichiamo diventino riferimento imprenscindibile anche per quelle private, non saranno più ammissibili gare al massimo ribasso e la competizione dovrà basarsi non più unicamente su questo parametro, ma sulla capacità delle imprese di offrire servizi a maggior valor aggiunto e di maggiore qualità”. Eppure la realtà è che non ci si può fermare. I sindacati lo sanno bene ed è per questo che nei mesi scorsi hanno inviato una piattaforma di proposte per dare maggiori tutele a chi lavora nel settore. Passo necessario, dunque, è che si apra la strada per dare dei vincoli anche ai privati. D’altronde ad oggi restano fuori anche da questo decreto, tra le altre, le grandi società di trasporti, piuttosto che quelle di produzione elettrica. “Questo significa – spiega Del Cimmuto – che non sono vincolate, anche se ora è evidente che c’è un riferimento autorevole, perché calcolato dallo stesso ministero del Lavoro e perché per i call center sono stati fissati i valori orari, ma anche quelli rispetto al minuto di conversazione, dato che in genere non si calcolano più di 40-42 minuti all’ora di conversazione”.

“Ci siamo impegnati dalla scorsa estate – hanno ricordato i sindacati – in un lungo e costruttivo confronto in sede ministeriale, e con Asstel (l’organizzazione che raggruppa società dei call center, ministero e sindacati, nda), che ha portato alla sottoscrizione della tabella del costo del lavoro medio al minuto di effettiva prestazione per livello inquadramentale che sostanzia il decreto stesso”. Non è invece soddisfatta Assocontact, associazione che rappresenta un’altra parte di call center in attività e che non ha partecipato alla definizione delle tabelle. “I valori definiti dal ministero del Lavoro – ha spiegato il presidente Paolo Sarzana – si riferiscono ai costi del lavoro diretti dei singoli operatori, ma non tengono conto dei costi di formazione, dei supervisori coinvolti, dello staff e dei costi di struttura che queste società sostengono per conto dei loro committenti”.

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