Che poco, molto poco, sia come prima in poesia ormai pare chiaro a molti, se non a tutti.
C’è chi depreca, chi stigmatizza, chi s’entusiasma, chi s’arrovella e si domanda.
C’è chi si inventa formule ed etichette, nella speranza che gli preservino la sudata nicchia.

Ma che si sia a punto di svolta, pare ormai innegabile.

C’è poi chi immagina che codesto salto nel dopo (il Moderno, il Post-moderno, l’Iper-moderno, o semplicemente il domani che si fa presente e corre via veloce) sia sostanzialmente un semplice mutamento di forme, che, nel caso della poesia, sarebbero comunque tutte integralmente letterarie. Chi, rifacendo il verso a Gleize, immagina che ci sia oggi, la poesia (la lirica, solo quella, e niente più, ovviamente, idealisticamente) e la post-poesia (tutto il mondo di parole e suoni e segni che rimane fuori dal recinto lirico), non soltanto ha la memoria corta (bastasse mettere un post per comprendere la realtà, allora il vocabolario della realtà sarebbe fatto soltanto di composti di post: e magari), ma ripropone vecchie dicotomie (crociane?), tutte interne alla letteratura.

A mio avviso, il salto di paradigma è ben altro e di ben più vasta portata, è un salto ‘mediale’, non semplicemente di genere letterario: è il salto oltre la letteratura, quello che ridà alla poesia la sua identità perduta. Il salto nell’oralità.

Oggi vorrei segnalarvi due libri/dischi di notevole interesse, che proprio in questo solco vanno ad allocarsi.

Le Partiture per un addio (Edicola ed.) di Paolo Agrati sono una sorta di Spoon River dei suicidi, voci lontane che riprendono la parola nel dopo per spiegare la loro scelta estrema. E lo fanno da una distanza infinita e ovattata, con parole che riecheggiano modi crepuscolari, o invece cinici e strazianti, spesso grigi, scabri, dimessi, che danno vita a testi assolutamente asciutti, che spesso giocano la loro scommessa tutta sulla chiusa, straniante, amara, sarcastica.

La parte sonora, l’esecuzione, che sta su bandcamp, qui, si avvale delle musiche originali di Simone Pirovano.

Sono ambienti musicali piuttosto lavorati ed efficaci, che immergono la voce del personaggio in una sorta di suo ritratto sonoro che scorre insieme alla dizione, sempre assolutamente misurata, quasi indifferente ai contenuti, di Agrati.

L’elettronica è sfruttata per generare suoni avvolgenti e a volte metallici, meccanici, che fanno grana, ma una grana che lievita con la voce cupa di Agrati, facendola in qualche modo levitare sulla sua cresta d’onda. Il risultato è un’amalgama di parole e suoni, in cui il linguaggio viene gonfiato e trasportato da un’onda sonora, che quando defluisce lascia aggallare sprazzi di senso lancinanti.

Insomma: un espressionismo letterario che si trasforma, ammorbidendosi, in un viaggio sonoro che sta tra il pop elettronico e il più classico degli spoken. Molto interessante.

Assolutamente diversa è la scelta formale di Monica Matticoli, che nel suo L’irripetibile cercare (Oèdipus ed.) inserisce un cd con titolo autonomo L’essenza dell’io, che si avvale della collaborazione vocale di un interprete esperto come Miro Sassolini e dell’arrangiamento di Marco Olivotto.

Se i testi (qui completati da due liriche di Valentina Tinacci) possono apparire alla lettura come pianamente lirici, stretti nella lotta tra un’incondizionata fiducia nella lingua e la sua delusione, la loro esecuzione ne stravolge completamente l’aspetto formale.

La voce, il canto, a volte assolutamente magistrale, di Miro Sassolini, tra echi pop e spigolosità di ‘ricerca’, sembra inghiottire l’io che parla sulla pagina, per espirarlo fuori frammentato, come stirato sino al punto dello strappo, lo deglutisce e lo fa risuonare dal profondo del respiro. Rimodula le ‘misure’ letterarie, trasformandole in tempo che scorre e che risuona.

Ma, nonostante la forza della musica e del canto di Sassolini, a chi ascolta è evidente come resti in primo piano la parola, che, per dirla con Monteverdi, chi esegue (e compone) «per Signora [tenga] l’orazione», la poesia, le sue melodie, i suoi ritmi, i suoi accenti.

Un impasto sonoro e linguistico davvero impressionante, sempre in equilibrio precario, ma sempre capace di restare sul filo teso, e anche quando a eseguire i testi è la Matticoli stessa (che scandisce e non canta, con buona padronanza vocale) il risultato resta assolutamente convincente.

Questo per dire che, in mezzo a tanto discutere di lirica e non lirica, di poesia di ricerca, di sperimentazione, o di tradizione, di canoni e di chi li compila e li legittima, a me pare che la poesia vada per la sua strada, verso tutt’altra direzione; che il problema non sia di genere, ma di medium. E che poi all’interno di questo campo che si fa, giorno dopo giorno, più vasto e ricco di sfumature, sarà, eventualmente possibile tornare a parlare di ‘poetiche’ o di tendenze, visto che, pur adottando il medesimo medium, opere come quelle appena presentate fanno riferimento a sistemi di valori formali (letterari, poetici, musicali) assolutamente differenti.

Ma prima di parlare di tutto questo, temo e credo, sarà necessario fermarsi a riflettere su “dove ora siamo” per parafrasare l’ultimo Fortini, cioè su dove ora è la poesia. E dove invece è rimasta la letteratura in versi.

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