“Ora finalmente grazie al Biotestamento siamo liberi di morire. Ma non siamo ancora liberi di vivere dignitosamente”. Nel mondo dei disabili, l’emozione per l’approvazione della legge che consente a tutti i cittadini di lasciare indicazioni per il fine vita è durata qualche ora. Perché se il diritto alla morte è stato, in parte, finalmente riconosciuto, ancora poco è stato fatto per quello alla vita. “Rivendichiamo il diritto dei disabili all’assistenza personale necessaria per vivere come tutti gli altri”. Chi martella ormai da settimane con un appello che ha fatto il giro di tutta l’Italia sono Elena e Maria Chiara Paolini, due sorelle di Senigallia poco più che ventenni e costrette in carrozzina: chiedono che governo e Parlamento aumentino i finanziamenti al Fondo per la non autosufficienza, perché altrimenti non possono fare “quelle cose che la gente di solito fa per restare viva”. Il primo ottobre scorso hanno scritto una lettera aperta al premier Paolo Gentiloni e l’hanno postata su Facebook. La denuncia è stata letta da migliaia di persone: il post è diventato virale con oltre 20mila like e le sorelle hanno ricevuto messaggi di sostegno da tutta Italia. Così è iniziata una valanga: da quella lettera hanno organizzato una mobilitazione in più di 20 piazze italiane (3,4,5 novembre scorso) ed è nata una rete per i diritti dei disabili “Liberi di fare”. Ora, quella realtà “indipendente e apartitica”, chiede al mondo della politica più attenzione. E non solo per quando si parla di morire.

Quello che si dimentica, hanno denunciato le due sorelle, è che la figura degli assistenti per i disabili è fondamentale. E quando termineranno i soldi, “peraltro già ampiamente insufficienti”, che lo Stato assegna per l’assistenza personale delle persone con disabilità, “dovremo limitare seriamente la nostra vita, indipendenza e felicità. La nostra libertà ha una data di scadenza”. Per questo è nata la mobilitazione e per questo le sorelle hanno lanciato l’appello. “Vogliamo”, ha spiegato Elena a ilfattoquotidiano.it, “far uscire le problematiche legate all’assistenza personale dei disabili fuori dai circoli degli addetti ai lavori. Vogliamo portare nelle piazze e nelle strade il disagio che migliaia di disabili gravi sono costretti a vivere”. Il problema fondamentale riguarda appunto i fondi destinati all’assistenza: “Sono scarsissimi e distribuiti a macchia di leopardo nelle varie regioni. Anche per questo le mansioni di assistenza sono svolte perlopiù da familiari (spesso genitori anziani, ndr), partner e amici, creando situazioni di dipendenza reciproca tra chi assiste e chi viene assistito. I pochi che se lo possono permettere, invece, sono costretti a pagare gli assistenti di tasca propria. Inoltre – continua una delle due sorelle Paolini – chi non ha intorno a sé una rete di persone o il supporto di un’associazione è costretto, molto spesso, al ricovero nelle case di cura, dove vengono meno alcune delle libertà fondamentali dell’individuo”.

La storia del Fondo per la non autosufficienza è un’odissea che va avanti da sempre. A marzo scorso il governo ha pure provato a tagliarlo di 50 milioni di euro (da 500 milioni), salvo poi tornare sui suoi passi con la promessa dell’arrivo di fondi strutturali, tutti elementi di incertezza e caos che hanno suscitato le proteste delle organizzazioni delle persone con disabilità. “La situazione è gravissima”, denuncia Elena. “Abbiamo ascoltato fin troppe parole e il tempo degli slogan è terminato. Se non ci saranno le risorse necessarie richieste da tempo abbiamo deciso che ci mobiliteremo nelle piazze di tutta Italia”. In particolare l’appello delle due sorelle è stato già recepito in queste settimane in Emilia-Romagna e nelle Marche.

Claudia, 48 anni e in carrozzina per la distrofia muscolare: “Il volontariato non basta”
Se un effetto le parole delle due sorelle l’hanno già avuto, è stato quello di mettere in contatto disabili sparsi in tutta Italia e dare forma a un malessere che cova da anni nelle vite private di tanti. Quotidianità che il mondo dà per scontato e che invece, in tanti, non possono affrontare da soli. Ti piace la domenica mattina alzarti quando hai voglia? Ti capita la notte di svegliarti per bere un bicchiere d’acqua per la sete che ti ha lasciato la pizza mangiata la sera prima? Ami uscire per andare a prendere un caffè al bar con gli amici? Ti piace andare a ballare? Sono azioni di tutti i giorni e che Claudia Quaglieri, 48enne con distrofia muscolare e da anni in prima linea a Mirandola (Modena) per difendere i diritti dei disabili, non si sente “libera di fare”. Claudia convive con una disabilità grave e per fare qualsiasi cosa ha bisogno di assistenza personale e domiciliare, servizio che rischia “di non avere più a causa delle risorse assolutamente insufficienti stanziate nel Fondo per la non autosufficienza”, spiega a Ilfattoquotidiano.it.

Per “vivere dignitosamente” Claudia chiede trasporti pubblici e taxi accessibili per la sua carrozzina non solo nelle grandi città, ma anche nei piccoli centri abitati; Asl che si occupino di fornire il supporto necessario per fare riabilitazione, rieducazione e sostegno psicologico; istituzioni che mettano a disposizione risorse economiche per pagare l’assistenza personale 24 ore su 24, gli ausili e le cure necessarie per una vita decorosa. “Occorre un sistema che faccia più inclusione e che avvicini molto di più soprattutto il mondo del lavoro alle persone diversamente abili. Ad oggi la maggioranza dei disabili è sostenuto, quasi esclusivamente, dagli sforzi e dall’aiuto economico dei genitori e a fatica si ritagliano un posto nella società”. Anche per Claudia, quelle che sono arrivate dal governo sono state solo “promesse”: “Parole poi rimangiate. Con risorse tagliate e poi riconcesse, ma lo stesso insufficienti. Scelte parlamentari che hanno gettato gli enti locali nell’incertezza costringendoli, in alcuni casi, a varare regolamenti che limitano i parametri di accesso agli aiuti economici, lasciando una parte degli utenti disabili esclusi pur avendone diritto. E’ vergognoso che le persone invalide al 100% con la Legge 104 debbano aspettare la sorte di un disavanzo positivo delle casse dello Stato”. Inoltre, continua Claudia, “i comuni stanno cercando di coinvolgere di più le forze del volontariato locale, scelta che sarebbe ottima se si sfociasse in un coordinamento immediato ed efficace delle risorse del territorio. Ma le amministrazioni comunali lo fanno, essenzialmente, per sopperire alla mancanza di aiuti economici che dovrebbero arrivare dalle istituzioni centrali e questo significa che si assiste, comunque, a una contrazione dell’offerta dei vari tipi di assistenza rispetto al continuo aumento del bacino degli utenti. E tutto questo a scapito di un servizio che deve essere garantito in modo continuativo e regolamentato”. Con l’approvazione del testamento biologico, conclude Claudia, “adesso possiamo permetterci di poter morire quando soffriamo troppo e non vogliamo più subire un accanimento terapeutico perché magari ci hanno abbandonato in una stanza di ospedale pieni di tubi e imbottiti di farmaci. Almeno liberi di morire ora lo siamo. Ma non siamo ancora liberi di vivere dignitosamente, liberi di fare ciò che vogliamo, liberi di autodeterminarci e di decidere come vogliamo vivere… perché io ho ancora voglia di vivere!”.

Cecilia, 32 anni e con la distrofia di Ullrich: “Lo Stato ci considera solo un costo, una persona che tanto non protesta se gli calpesti i diritti”
Le sorelle Paolini con la loro lettera hanno risvegliato la rabbia di tante persone che si sentono dimenticate dallo Stato. E anche per questo sono nate manifestazioni in tutta Italia per dare seguito alla loro protesta. Chi ha aderito immediatamente è stata Cecilia Sorpilli. 32 anni di Ferrara, ha la distrofia di Ullrich ed è presidentessa dell’associazione Collagene VI Italia Onlus. Ha sempre amato studiare, tanto che nel suo curriculum ci sono: triennale in Scienze dell’Educazione a Ferrara, specialistica in Progettazione e gestione dei servizi educativi nel disagio sociale a Bologna e un master di primo livello in Tutela, diritti e protezione dei minori. Al momento lavora in due cooperative con contratti di poche ore a tempo determinato che le permettono di lavorare sia con il Servizio integrazione alunni disabili del suo Comune sia su progetti di sostegno alla genitorialità del Centro per le Famiglie di Ferrara. Il suo sogno è sempre stato quello di poter entrare a far parte di un progetto di Vita Indipendente. “Da circa due anni vivo, con una assistente”, spiega a ilfattoquotidiano.it, “al piano terra del palazzo dove abitano anche i miei genitori e in una casa che ho reso accessibile. Ho deciso che passati i 30 anni era ora di avere la mia indipendenza, oltre che alleggerire il carico di lavoro dei miei. Ho sempre avuto una forte tendenza all’autonomia, nonostante i limiti fisici e sognavo di avere un appartamento mio dove imparare a gestirmi da sola. E’ stato un percorso non facile. Ho dovuto affrontare diverse battaglie, ma ora siamo tutti soddisfatti e contenti. Ma questo non mi basta. Nessuno può fermarmi nella mia lotta a difesa dei diritti di tante altre persone che si trovano a non avere questa possibilità che la mia famiglia mi ha dato”, visto che i soldi pubblici a sostegno della Vita Indipendente sono quasi del tutto assenti”.

Anche per questo Cecilia ha aderito a Liberi di fare e organizzato la manifestazione di novembre scorso: “Abbiamo realizzato un presidio in piazza e abbiamo allestito una zona con carrozzine vuote e ausili tipo deambulatori e bastoni con davanti un cartello su cui era scritto ‘verrei, ma non posso’ per rendere visibili tutte quelle persone con disabilità che avrebbero voluto essere presenti al sit-in ma non potevano perché, senza un assistente personale, non possono uscire di casa”. Altre iniziative sono previste per il 2018. “Ad un certo punto – dice Cecilia a Ilfattoquotidiano.it – la vita di tutti i giorni delle persone normodotate per un disabile diventa qualcosa di irraggiungibile e impensabile e quando qualcuno, come le sorelle Paolini, ti tira fuori da questo torpore e ti restituisce la consapevolezza dei tuoi diritti, ti si accende un fuoco dentro, alimentato dalla rabbia per tutto quello che hai perso negli anni, per le scelte di uno Stato che ti considera solo un costo e non una risorsa, una persona che tanto non protesta e non fa casino più di tanto se gli calpesti i suoi diritti. Quel fuoco non si spegne più ma cresce dandoti una forza indescrivibile per portare avanti una battaglia di civiltà, perché l’Italia non è un paese che tratta civilmente le persone con disabilità”.

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