L’annuncio del presidente statunitense Donald Trump di trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme è stata accompagnata da parole di pace.

Trump ha presentato la sua decisione sia come promessa elettorale onorata sia come spinta al processo di pace, la parola più pronunciata nel suo messaggio. Un impegno che Trump ha assunto più che con gli ebrei statunitensi (in larga parte contrari a questa iniziativa) con l’American Israel Public Affairs Committee meglio nota come Aipac, potente lobby repubblicana pro-Israele che ha appoggiato la campagna elettorale di Trump.

In genere, le audaci soluzioni di pace possono provenire solo da uno dei due belligeranti, non da chi è all’esterno della contesa.

Per chi come gli Stati Uniti esercita un ruolo terzo, per quanto influente, professare un’ideologia di pace dovrebbe significare porsi in ascolto e fare dialogare le parti, come avvenne con la presidenza Clinton sia nel 1993 con gli accordi di Oslo, sia con la pace sfiorata e poi fallita nel 2000.

Gerusalemme, una città per due popoli, è il punto di maggior contesa che ostacola il processo di pace. Il nodo che fece naufragare l’ultimo tentativo di pace era legato al controllo della Spianata delle Moschee (con la Roccia Santa dalla quale Maometto salì in cielo nel suo viaggio notturno). Questo fazzoletto di terra è sacro anche agli ebrei che lo identificano come il Monte del Tempio di Salomone.

Non a caso, la Seconda Intifada che partì nel settembre del 2000 fu accesa dalla visita, blindata da un migliaio di uomini armati, dell’allora leader del Likud (partito conservatore israeliano) Ariel Sharon alla Spianata con l’intento di rivendicare quel luogo, tradizionalmente controllato dai palestinesi, a Israele.

Spostare la sede di un’ambasciata è un gesto simbolico, in apparenza, ma specialmente in politica estera i simboli hanno più peso dei fatti tanto più che gli Stati Uniti sarebbero l’unico Stato (se si vuole escludere il piccolo arcipelago di Vanuatu) ad avere la principale sede diplomatica a Gerusalemme. Poco importa la precisazione di Trump che i confini interni alla città non cambieranno. In realtà Israele erode passo dopo passo l’area palestinese di Gerusalemme est, in spregio alla risoluzione 2334 del 2016 con la quale il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha dichiarato l’illegalità degli insediamenti israeliani in quella parte della città. Se davvero Trump avesse voluto tutelare l’intangibilità dei confini cittadini, avrebbe dovuto offrire agli israeliani la possibilità di spostare l’ambasciata a Gerusalemme in cambio dello smantellamento degli insediamenti ebrei nella zona est.

Le reazioni internazionali non hanno tardato ad accendersi. Su tutti, in Europa, il presidente francese Emmanuel Macron ricorre a toni aspri: “Decisione deplorevole che contraddice il diritto internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite”.

Già le prime colonne di fumo, per ora solo lacrimogeni, accompagnano le immediate proteste palestinesi a Gerusalemme. Qualcuno teme una nuova deriva terrorista che decisioni di questo tipo possono alimentare.

Il quadro che ci resta di fronte è quello di un provvedimento che va immediatamente a peggiorare, con le nuove violenze che seguiranno, la vita quotidiana degli abitanti di Gerusalemme mentre nulla succederà per i diritti calpestati dei palestinesi, spinti in tutti i modi ad andarsene dalla città, banditi da ogni concessione edilizia, boicottati economicamente e umiliati dall’assenza di diritti civili.

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