Per la prima volta in oltre cinquant’anni, nel mondo torna a profilarsi distintamente la minaccia nucleare. La Corea del Nord lancia un nuovo missile balistico verso il Giappone e Washington risponde promettendo che “se ci sarà una guerra, il regime nordcoreano sarà completamente distrutto. Seul e Tokyo temono un attacco da parte di Pyongyang che potrebbe provocare lo sterminio di milioni di persone. Uno scenario nel quale si innesta il Nobel per la pace assegnato a inizio ottobre all’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (Ican) nella cui motivazione è esplicito proprio il richiamo alla minaccia nucleare nord-coreana, e a una risposta statunitense che vada oltre gli ultimi appellativi affibbiati da Donald Trump a Kim Jong-un: “Sick puppy”, cagnolino malato, le parole con cui il capo della Casa Bianca ha definito il leader nordcoreano.

La relativa tranquillità che ha governato il mondo a partire dal Trattato di non proliferazione nucleare (1968), con tutti i successivi sviluppi e integrazioni, è ormai un ricordo. I nuovi equilibri geopolitici, seguiti alla fine della Guerra fredda, e l’emergere di un mondo multipolare, in cui dotarsi di armi nucleari diventa sempre più facile, fanno riemergere le antiche preoccupazioni. Le difficoltà della diplomazia, e la presenza sulla scena di leader imprevedibili, non fanno che aumentare confusione e timori.

Se si guarda alla storia del secolo scorso – con la tragica eccezione del secondo conflitto mondiale, in cui le armi nucleari furono effettivamente utilizzate a Hiroshima e Nagasaki – una cosa appare nuova: le ragioni del ricorso alla minaccia nucleare. Un tempo la minaccia scattava in presenza di una questione specifica e come strumento di pressione diplomatica. Oggi i temi di contrapposizione specifica sembrano mancare e il ricorso alle armi nucleari è spesso ventilato come modo per impedire che l’avversario arrivi a disporre dell’arma nucleare. Molto diverso è anche il contesto diplomatico in cui ci si trova ad agire. Nel mondo della Guerra fredda il nucleare era un elemento che restava sullo sfondo di ogni contrapposizione tra i due blocchi e di un dibattito che comunque procedeva nel segreto delle cancellerie e tra alleanze relativamente stabili e definite. Oggi le alleanze sono spesso più incerte e le potenze che aspirano al nucleare appaiono come battitori liberi difficili da controllare.

L’apice delle crisi nucleari del passato si colloca senza dubbio nel periodo che va da metà anni Cinquanta al 1962: pochi anni che videro più volte il mondo sull’orlo del disastro e che radicarono nelle opinioni pubbliche mondiali un senso di fine imminente (scrivevano gli scienziati e gli intellettuali del Manifesto Russell-Einstein del 1955: “Non stiamo parlando come membri di questa o quella nazione o continente o fede religiosa, ma come membri della specie umana, la cui sopravvivenza è messa a rischio”). La prima di questa crisi esplose nel 1956. In quel momento, soltanto Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna disponevano di armi nucleari. Negli Stati Uniti, in particolare, il presidente Dwight Eisenhower veniva rieletto contro il suo eterno rivale Adlai Stevenson e la sua amministrazione si trovava a gestire la crisi ungherese. E’ in questo contesto che Francia, Gran Bretagna e Israele decisero di occupare il canale di Suez e defenestrare il leader nazionalista egiziano, Gamel Abdul Nasser. Le ragioni di rivalsa contro Nasser erano varie. Gli inglesi non gli perdonavano di aver nazionalizzato il canale di Suez; i francesi ritenevano che avesse soffiato sul fuoco della rivolta algerina; gli israeliani volevano allargarsi nel Sinai.

Gli americani non vennero avvertiti dell’attacco. I sovietici reagirono in modo molto duro. Il 5 novembre il premier sovietico Nikolai Bulganin fece recapitare note diplomatiche ai tre governi aggressori e alle Nazioni Unite. In particolare, nella nota inviata a Londra, l’Urss lasciava trapelare la possibilità di una ritorsione nucleare, senza però mai davvero esplicitarla: “Nulla può giustificare il fatto che le forze armate di Gran Bretagna e Francia, due grandi potenze, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, abbiano attaccato un Paese che solo di recente ha guadagnato l’indipendenza e che non ha mezzi di difesa sufficienti – affermava Bulganin – in quale posizione si sarebbe trovata la Gran Bretagna se fosse stata attaccata da uno Stato più potente che possiede ogni tipo di strumento di distruzione? E ci sono Paesi ora che non hanno bisogno di inviare forze navali o aeree verso le coste della Gran Bretagna, ma che potrebbero usare altri strumenti, come le tecniche missilistiche”. Bulganin aggiungeva che Francia e Gran Bretagna avrebbero definito “barbaro” questo tipo di attacco, che però non era diverso da quello che loro stessi avevano portato all’Egitto.

Quello che allora non si sapeva, e che emerse soltanto più tardi, è che il governo di Mosca stava bluffando. A quel tempo l’Urss disponeva di armi nucleari, ma non aveva davvero la possibilità di lanciarle contro gli obiettivi prescelti. Le pressioni russe ebbero comunque l’effetto desiderato. A Washington si diffusero forti preoccupazioni per l’allargarsi del conflitto (l’amministrazione americana si trovava anche nell’imbarazzante situazione di criticare l’intervento sovietico in Ungheria, mentre i suoi due principali alleati erano impegnati in una operazione coloniale vecchio stile). Gli Stati Uniti costrinsero quindi Francia e Gran Bretagna al cessate il fuoco (le pressioni esercitate nei confronti di Londra furono soprattutto finanziarie: Eisenhower minacciò di vendere le riserve statunitensi di sterlina, provocando il crollo della valuta britannica). Anche Israele venne ridotto a più miti consigli. Il ritiro dal Sinai fu ottenuto grazie alla minaccia americana di cancellare le esenzioni fiscali concesse per i contributi dei cittadini Usa a Israele.

Una nuova crisi si aprì due anni dopo, questa volta con la Germania come epicentro. Nel 1958 la situazione del Paese uscito sconfitto dopo la Seconda guerra mondiale non si era ancora stabilizzata. Diviso di fatto in due blocchi contrapposti, soggetto agli accordi di Potsdam del 1945 che non riconoscevano la separazione della Germania e l’esistenza della Repubblica Democratica, il blocco tedesco era fonte di continui conflitti. Berlino Ovest rappresentava poi una vera spina nel fianco dell’Urss: il suo stile di vita e di sviluppo evidentemente superiore a quello dell’Est imbarazzava il blocco orientale e costituiva una fonte d’attrazione naturale per la gente dell’Est.

E’ in questo clima che Nikita Kruscev lancia l’ultimatum russo: la richiesta di rinuncia delle potenze occidentali ai diritti su Berlino, che sarebbe stata trasformata in città libera e smilitarizzata all’interno della DDR. Nella nota sovietica si affermava anche che, se entro sei mesi gli occidentali non avessero dato il loro consenso alle proposte presentate, l’Unione Sovietica avrebbe agito da sola, regolarizzando le sue relazioni con la Germania dell’Est. Kruscev minacciò anche di bloccare l’accesso alla capitale tedesca e di affidare ai tedeschi dell’Est il controllo degli accessi a Berlino ovest. Se quindi le forze alleate avessero cercato di raggiungere Berlino Ovest senza il consenso della DDR, l’Unione Sovietica avrebbe considerato questo un atto ostile capace di scatenare una guerra atomica. Fu questa la minaccia che il leader sovietico, tra vicende alterne come anche il passaggio di potere a Washington tra Eisenhower e John Kennedy, continuò a ripetere per i successivi tre anni. Fu in presenza del negoziatore americano John J. McCloy che Kruscev apparve “davvero impazzito”, pronto a scatenare una guerra nucleare globale “che avrebbe distrutto la civiltà”.

La costruzione del Muro di Berlino nella notte del 13 agosto 1961 esacerbò ulteriormente gli animi. Prima presi di sorpresa, poi costretti a mostrare solidarietà nei confronti di Berlino ovest e un atteggiamento più intransigente nei confronti del blocco sovietico, gli americani pianificarono un attacco militare in quattro fasi nel caso di intervento sovietico nella parte occidentale di Berlino. Il quarto punto, oggetto di uno scontro violento nell’amministrazione Usa tra il falco e vice segretario alla difesa Paul Nitze e il suo superiore Robert McNamara, prevedeva l’impiego di armi nucleari. Dopo diversi giorni di confronto – con i mezzi corazzati schierati davanti al Checkpoint Charlie -, sovietici e americani si ritirarono, favorendo un allentamento della tensione. In realtà, né l’amministrazione americana (il fratello del presidente, l’attorney general Robert Kennedy, svolse un ruolo importante per i suoi contatti con l’addetto stampa sovietico a Washington), né il segretario generale Kruscev né i capi britannici erano disposti a intraprendere una guerra nucleare per ragioni di principio lungo il nuovo confine tra i due Blocchi.

Il conflitto si riaprirà comunque di lì a pochi mesi. In risposta alla fallita invasione della Baia dei Porci e alla presenza di missili balistici americani in Turchia e Italia, Kruscev decise di installare missili nucleari sull’isola. La decisione discendeva dalla percezione di debolezza che Kennedy aveva dato ai russi in occasione della crisi di Berlino. “Troppo giovane, intellettuale, non preparato bene per il processo decisionale in situazioni di crisi … troppo intelligente e troppo debole”, scrisse del presidente americano un funzionario di Mosca. Ma la scelta di installare i missili dipendeva anche dalla consapevolezza sovietica della propria debolezza. Nel 1962, i sovietici avevano solo 20 ICBM, missili balistici intercontinentali, capaci di colpire gli Stati Uniti con testate nucleari, il cui lancio doveva avvenire dall’interno dell’Unione Sovietica. La loro efficacia e precisione erano però argomento di dibattito tra i militari: sicuramente lo spostamento dei missili in zone in cui si sarebbe con più facilità raggiunto gli obiettivi americani rappresentava per l’Urss un elemento per colmare il gap nei confronti degli Stati Uniti. C’era però anche un altro elemento. Kruscev era convinto che se Washington non avesse fatto nulla contro il dispiegamento dei missili a Cuba, l’Unione Sovietica avrebbe potuto completare l’annessione della parte occidentale di Berlino.

Dopo l’installazione dei missili e la decisione di Washingron di imporre un blocco navale attorno a Cuba, la situazione precipitò rapidamente. Mentre le navi sovietiche si avvicinavano alla zona del blocco e su un sottomarino russo si valutò la possibilità di lanciare un missile nucleare, un aereo americano venne abbattuto su Cuba. Furono quelle le ore in cui il mondo restò col fiato sospeso, in attesa della possibile esplosione del conflitto. Fu però ancora una volta la ragione a trionfare (contro parte dell’apparato militare statunitense, che avrebbe preferito invadere Cuba, e contro una parte delle autorità sovietiche, soprattutto dei militari, che pochi anni dopo misero fine al potere di Kruscev). Di fronte alla promessa americana di non invadere Cuba e di mettere fine al blocco navale, Kruscev ordinò la rimozione dei missili sovietici.

Fu quello il momento più drammatico di una crisi che pareva inevitabilmente destinata a esplodere e coinvolgere nel disastro nucleare buona parte del mondo (importante, in quell’occasione, fu il ruolo svolto da papa Giovanni XXIII, che impegnò il Vaticano in una serie di negoziati diplomatici che dovevano servire a mantenere aperta la comunicazione tra le due parti). Anche nell’occasione dei missili di Cuba, come in quella della crisi di Suez e nello scontro su Berlino, le parti si confrontarono dunque su questioni specifiche e giunsero a compromessi più o meno soddisfacenti. E’ la condizione che sembra mancare oggi, con i rivali – Stati Uniti, Corea del Nord, Iran – impegnati in una guerra di insulti e in un tentativo di arrivare a esercitare – o impedire di esercitare – il potere che le armi nucleari offrono.

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