di Jacopo Bencini

Manca poco alla Cop23. Dal 6 al 17 novembre, diplomatici e negoziatori di quasi tutti gli stati del mondo si incontreranno a Bonn, in Germania, per continuare a discutere dell’implementazione dell’Accordo di Parigi sul clima. Questo importante accordo internazionale è stato approvato quasi due anni fa ed è entrato in vigore nel 2016, ben quattro anni di anticipo sulla tabella di marcia: l’impegno inderogabile nella lotta al cambiamento climatico ha spinto la maggior parte dei Paesi (inclusi la Cina e gli Stati Uniti di Barack Obama) ad accelerare il passo.

Nonostante l’insediamento del presidente negazionista del cambiamento climatico Donald Trump abbia per ora escluso dall’Accordo uno dei due principali emettitori di gas serra, questo non ha fermato il lavoro della comunità internazionale. Peraltro, formalmente, gli Usa non potranno lasciare l’Accordo di Parigi prima del 4 novembre 2020 e negli ultimi mesi diversi Stati, città e attori non governativi hanno annunciato di voler continuare a impegnarsi verso gli obiettivi nazionali di mitigazione indipendentemente dalla posizione del governo federale.

La 23esima conferenza delle parti della Convenzione quadro sul clima dell’Onu (Unfccc) si pone l’obiettivo di confermare l’impegno dei Paesi a mantenere l’innalzamento globale medio delle temperature al di sotto dei 2 °C rispetto all’inizio del secolo e, possibilmente, entro il grado e mezzo, così come auspicato dai piccoli stati insulari. Come stabilito a Parigi, ogni stato facente parte dell’Accordo dovrà presentare degli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni e di adattamento al cambiamento climatico, con un maggior impegno da parte dei paesi più industrializzati e quindi maggiormente responsabili della situazione climatica attuale.

Proprio nell’universalità e nell’equità dell’Accordo di Parigi giace la differenza fondamentale con il precedente Protocollo di Kyoto. In passato, le azioni di mitigazione erano riservate ai soli paesi industrializzati; tramite l’Accordo di Parigi, invece, anche i piccoli stati del Pacifico o i grandi Paesi in via di sviluppo dell’Africa centrale sono incoraggiati ad attuare azioni di contenimento e adattamento, auspicabilmente finanziate dai paesi sviluppati tramite il trasferimento di progetti, tecnologie, capacità operativa e risorse finanziarie.

Rispettare a livello nazionale l’Accordo di Parigi significa incidere in modo sostanziale sulle politiche industriali, della forza lavoro, della ricerca. Significa in ultima analisi far virare i maggiori portatori d’interesse industriale verso l’adozione di una nuova governance dei processi produttivi. Data l’interdipendenza a livello sovranazionale delle reti produttive ed energetiche, ciò rappresenta una vera e propria sfida diplomatica tra le Parti.

Ed ecco che la trasparenza nelle comunicazioni tecniche, nella definizione nazionale degli obiettivi e negli scambi di informazioni assume un ruolo decisivo nella difficile partita geopolitica sul clima. Il livello di trasparenza e le modalità di comunicazione e revisione all’interno dell’Unfccc sono normati da principi stabiliti tra il 2007 ed il 2010, e prevedono regole diverse per i paesi sviluppati e per quelli in via di sviluppo, con procedure semplificate e meno approfondite per i secondi. Questa differenza deriva dal fatto che misurare, accertare e render conto delle emissioni sul proprio territorio nazionale è qualcosa di tecnicamente molto complesso e molto costoso.

Nelle sessioni di valutazione e revisione internazionali, le delegazioni dei vari paesi presentano alle altre nazioni i propri sviluppi rispetto agli obiettivi nazionali con proposte di intervento. Questo non è che la punta dell’iceberg di un minuzioso lavoro di raccolta dati quotidiano condotto dai maggiori istituti di ricerca e monitoraggio ambientale del paese di provenienza. Un iter complicato che deve essere regolato: l’Accordo di Parigi del 2015 impone, all’articolo 13, che i paesi firmatari costruiscano una struttura-quadro comune potenziata per la trasparenza (enhanced transparency framework), con modalità, procedure e linee guida da approvare entro il 2018, seppur prescritte come vincolanti ai paesi sviluppati e soltanto indicate come da seguire per i paesi in via di sviluppo. La previsione dell’articolo 13 potrebbe tuttavia scontrarsi con l’ancora scarsa capacità reportistica di molti paesi in via di sviluppo e l’altrettanto insufficiente trasferimento di capacità a questi ultimi da parte dei paesi industrializzati. Non a caso, nella sessione pre-negoziale tenutasi a Bonn nello scorso maggio l’Unione Europea e la Cina hanno espresso opinioni fortemente divergenti sul tema.

Se da una parte Bruxelles gioca buona parte della propria credibilità internazionale sulla buona riuscita degli accordi sul clima e promuove l’approvazione di misure di trasparenza standardizzate e tecnicamente ambiziose, Pechino si erge a portavoce dei paesi in via di sviluppo e chiede misure più tenui. Per quegli stati, infatti, una reportistica dettagliata e trasparente in assenza di supporto finanziario dall’estero costerebbe troppo, viste le esigenze primarie di sviluppo nel breve periodo in settori decisamente più strategici per la qualità della vita.

Un sistema internazionale di controllo e verifica effettivamente efficace e sanzionante, quale dovrebbe essere il mondo della diplomazia climatica sotto l’Accordo di Parigi, non potrà funzionare finché gli attori in campo non parleranno un linguaggio tecnico comune e accessibile. Il braccio di ferro tra le parti è destinato a continuare durante la Cop23 e ne detterà l’agenda.

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