Finalmente si parla di scuola media. Erano anni che non si mettevano le mani, la testa, gli occhi su questo segmento del nostro sistema d’istruzione. Nei giorni scorsi la sottosegretaria all’Istruzione Angela D’Onghia lo ha fatto per prima esprimendo un parere che ci chiediamo se concordato con la ministra Valeria Fedeli: “Perché non esaminare l’intero percorso scolastico degli otto anni rimodulandolo nella sua interezza e semmai modificando il ciclo di studi delle scuole medie da tre a due anni?”. Una domanda nata all’interno di un contesto e all’indomani dell’avvio della sperimentazione a livello nazionale del diploma in quattro anni alle scuole superiori. Il quotidiano La Stampa riprendendo le parole della D’Onghia riportate dal nostro giornale ha intervistato la ministra Valeria Fedeli e in prima pagina ha riportato il titolo: “Così accorcerò le medie”.

In fretta e furia l’inquilina di viale Trastevere ha smentito: “Nessuna velleità di poter completare o anche solo avviare una riforma dei cicli che interessa milioni di famiglie italiane, che incide sul futuro delle nuove generazioni e dell’intero sistema Paese, nei pochi mesi che restano prima della fine della legislatura. E, soprattutto, nessuna proposta di “ridurre da 3 a 2 anni le medie”. Precisazione fatta, ma ormai era tardi. Il dibattito è stato aperto. Poco male. Anzi. Perché se è vero che il tempo della Fedeli è scaduto a causa della fine della legislatura è altrettanto vero che la ministra si è convinta dell’importanza della revisione dei cicli. In fondo quella sarebbe la vera riforma.

Qualcuno per parlare di questa questione ha rispolverato l’ex ministro Luigi Berlinguer. Chi ha capito da anni la debolezza della scuola media è la Fondazione “Giovanni Agnelli” che nel 2011 aveva dedicato il suo rapporto annuale al tema (libro – edito da Laterza – che ogni dirigente, insegnante e maestro dovrebbe leggere!): “Se negli anni Sessanta e Settanta, la scuola media è servita a garantire l’originario obiettivo di far crescere la scolarità italiana, attraverso il completamento dell’obbligo, oggi è una terra di mezzo che non riesce a dare a tutti i ragazzi le stesse possibilità di successo negli apprendimenti”. Andrea Gavosto, direttore della Fondazione, in questi giorni ha aggiunto una riflessione importante: “Cambiare la durata dei cicli senza modificare la didattica scolastica, ancor oggi legata alla lezione dalla cattedra, alle interrogazioni, al banco e ai compiti a casa, non serve a nulla. La vera riforma da fare sarebbe quella delle competenze didattiche dei docenti, dei tempi e degli spazi scolastici”.

A queste parole mi permetto di aggiungere un’altra necessità: la riforma dei cicli va fatta guardando a bambini e ragazzi. Non solo pensando a cosa si insegna, ai contenuti, agli organici, ma soprattutto avendo ben chiaro chi sono le persone che abiteranno questa “nuova” scuola. Oggi a 9-10 anni sono dei preadolescenti con linguaggi, sensibilità, intelligenze simili ai ragazzi di 11-12 anni che frequentano la media. Chi è in quinta alla primaria non ha nulla da spartire con il bambino di 6 anni che è arrivato dalla scuola dell’infanzia ed è sotto lo stesso tetto. Sono due mondi separati. Le fasi dell’evoluzione infantile sono cambiate, ma non è cambiata la scuola e non si sono adeguati gli insegnanti. Abbiamo un modello di istruzione nato in un’epoca diversa da quella che stiamo vivendo. Ecco perché credo dovremmo avere il coraggio di rivedere i cicli pensando di dare risorse a una scuola che sia competente e capace di accompagnare i bambini dai sei agli otto anni ma altrettanto all’altezza del ruolo per la fase successiva.

Pensare di avere dei maestri che sviluppano competenze e professionalità per stare con dei bambini di sei anni e allo stesso tempo per vivere in una classe con dei preadolescenti che parlano due lingue, usano tablet e smartphone, Snapchat e Facebook, è poco professionale. E’ come scegliere di andare da un gastroenterologo per farsi curare il cuore: anche lui è un medico, ma ha altre competenze!

Mi rendo conto che per molti insegnanti questa è una rivoluzione, ma non possiamo restare ancorati ad un’idea ottocentesca di scuola.
Non mi scandalizzerei di avere una primaria che si ferma prima e una secondaria che copre una fascia dai 9 ai 12/13 con un team di educatori composto da maestri e professori che sappiano lavorare insieme. Una scuola davvero verticale. L’idea, infatti, degli istituti comprensivi oggi è solo sulla carta e resta l’ennesima falsa illusione alimentata da rari progetti che non trovano incarnazione nella vita dei ragazzi.

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