La bambina parla come un direttore di marketing, e, petulante fino al parossismo chiede alla madre la merendina perfetta, che coniughi (usa proprio quel verbo, “coniugare”) in maniera irreprensibile leggerezza e gusto. Questa volta però succede qualcosa di diverso da quanto ci si aspetterebbe, perché la mamma impossibile che sistema gli addobbi floreali in un tempo senza tempo di fronte a una casa da sogno questa volta viene schiacciata da un meteorite

Ora, quelli di noi che hanno vissuto da consumatori l’epoca degli anni ’80 e ’90 sono senza dubbio cresciuti nell’idolatria del prodotto. La pubblicità ha vissuto una profonda evoluzione dall’epoca della presentazione delle virtù del prodotto alla proposta di identificazione con personaggi in situazioni al limite del parossismo, con l’implicita promessa di eterna salute, bellezza, potenza e ricchezza. Ma pochi si sono permessi un simile cinico attacco alla sacralità del mito costruito dalla pubblicità intorno al consumo del prodotto.

Pasta e biscotti sono stati per decenni prodotti e consumati in splendidi mulini bianchi in cui il contatto tra natura e cultura produceva bellezza e armonia, in cui uomini-Banderas parlavano con polli e bambini del fragrante frutto della loro dedizione e stupende donne madri-modelle somministravano merendine gustosissime e al tempo stesso genuine e leggere, sicuri motori della crescita di predestinati leader del mondo sociale. Famiglie tradizionali e moderne insieme ci hanno offerto una proposta di identificazione alla quale è difficile sottrarsi.

Un universo, quello della pubblicità patinata forse ancora parzialmente funzionale, affidato com’è alla reiterazione continua del messaggio di fronte a uno spettatore anestetizzato di fronte alla tv. Un’assuefazione che necessita tuttavia di aumentare sempre più le dosi, l’esposizione allo stimolo e i budget. Dall’altra parte un’annoiata aspettativa di ricevere la solita intoccabile proposta.

La sacralità di un mito di consumo viene oggi invece spiaccicata senza pietà dai due meteoriti, che distruggono non solo mamma e papà protagonisti dello spot e con essi l’immagine idealizzata, stereotipata e stucchevole di una famiglia che non è mai esistita; ma anche tutto il mondo della pubblicità che ci ha offerto questa immagine per almeno trent’anni della nostra vita e infine anche un prodotto che rimane lì, oltre le ceneri della famiglia schiacciata, prigioniero del suo stesso anelito di rappresentare il vertice del gusto e al tempo stesso l’adesione alle regole del fitness e del più rigoroso purismo alimentare.

Qualche associazione di consumatori e di sorveglianti delle regole della comunicazione ha così trovato il modo di dimostrare l’utilità della propria esistenza sentendosi in dovere di esprimere dissensi e di scrivere ai garanti dimenticando gli studi sull’esposizione continua e prolungata a un numero elevatissimo di morti violente cui ogni bambino messo di fronte alla televisione assiste ogni giorno, dal telegiornale a Csi senza trascurare i cartoni animati. La verità è che ciò che è strano, ciò che risveglia il telespettatore non è la morte della madre, ma di quella madre-archetipica, la distruzione di un mito, la dissociazione di un’icona.

Di certo la sfida a smascherare il gioco dell’advertising ipermoderno è vinta e lascia, dopo il passaggio delle meteore lo spettatore di fronte al cliché dissacrato, permettendogli così di ridere delle sciocchezze stereotipate e idealizzanti che rischiavano di gravitare intorno all’eterna merendina di sempre. Ed è forse anche più attuale nel tempo di Internet permettere di modificare almeno in parte la posizione del tutto passiva dello spettatore televisivo trasformandolo in protagonista critico che ride degli autori della narrazione pubblicitaria. Rimane il dubbio sulla funzionalità complessiva dello stratagemma pubblicitario, che fa ridere, ma secondo alcuni pubblicitari non farebbe vendere una merendina in più. Se non fosse per un dettaglio. Questa pubblicità, inutile nasconderlo nasce apposta per far discutere e ha già scalato rapidamente tutti i ranking di Google raggiungendo in questo modo, apparentemente paradossale lo scopo di far parlare di sé e di un prodotto quasi obliato. E quindi vince sempre la pubblicità, anche quando dissacrando se stessa riesce, sia pure al di fuori del canale di diffusione a produrre un potente effetto di sponda. Possiamo quindi dire: la pubblicità è morta; lunga vita alla pubblicità.

Articolo Precedente

Buondì Motta, l’asteroide colpisce ancora. Dopo la mamma muore anche il papà

next
Articolo Successivo

Macchianera Internet Awards, in gara c’è anche ilfattoquotidiano.it nelle categorie Miglior sito e Miglior testata giornalistica

next