Bertolt Brecht, il grande poeta e drammaturgo tedesco, tracciava il profilo di un nuovo individuo che sarebbe stato responsabile delle più grandi catastrofi della contemporaneità: l’analfabeta politico. Per Brecht, l’analfabeta politico è colui che non considera affar suo tutto ciò che si trova oltre la porta di casa. Per questo motivo tra tutti gli analfabeti, quello politico è il peggiore. “Egli non sente, non parla, non si interessa degli avvenimenti politici. L’analfabeta politico è così somaro che si vanta e si gonfia il petto dicendo che odia la politica. Non sa l’imbecille che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il bambino abbandonato, l’assaltante e il peggiore dei banditi che è il politico imbroglione…”. Mentre infervorano i commenti su chi siano, tra i partiti, i vinti e chi gli sconfitti delle elezioni amministrative, c’è da chiedersi se veramente debba essere questo il centro della discussione.

Il problema che emerge dai risultati delle consultazioni non è Grillo e il modello caricaturale di democrazia che ha venduto come motore di rinnovamento di una politica corrotta e autoreferenziale. Il vero nodo è l’allargamento del baratro tra cittadini e democrazia. I risultati delle elezioni non sono solo una questione di gusti o preferenze, come si rischia nel dibattito attuale di fare trasparire, bensì di decidere se passare o non superare quella linea invisibile, ma chiara e netta che separa l’essere suddito dall’essere cittadino.

I votanti delle elezioni dell’11 giugno complessivamente sono stati poco più del 60% ovvero circa meno sette punti rispetto alle elezioni del 2012. Qualcuno potrebbe sostenere che si tratta di un trend comune alle grandi democrazie europee. Ma la partecipazione politica va letta sempre in una ottica contestuale riferita ai tassi storici di voto, alla complessità e all’urgenza delle questioni politiche da dirimere, al livello di fiducia o discredito di cui gode uno specifico ceto politico. In questi termini il dato dell’astensionismo delle amministrative domenicali dovrebbe fare tremare i polsi.

Non votare alle elezioni comunali significa semplicemente essere disinteressati non rispetto ai grandi programmi nazionali di politica economica o alla riforma delle pensioni, ovvero livelli meno accessibili al vissuto della quotidianità, ma anche al piano urbanistico del luogo in cui si vive, al trasporto pubblico che consente di andare o meno al lavoro, alla retta degli asili nido. Insomma a una dimensione che riguarda direttamente la vita di ogni giorno delle persone. Ma se di questo si parla, perché quattro cittadini su dieci non si sono recati alle urne? E’ segno di una democrazia ormai matura all’inglese, dove il rapporto tra cittadini e politica è tale da concedere sulla fiducia un mandato elettivo da misurare alla fine della scadenza naturale della legislatura? Oppure è possibile si tratti soltanto di un deterioramento momentaneo delle proposte politiche che scoraggia il prendersi mezzora di tempo per andare alle urne? O c’è qualcosa di altro che si preferisce non dire, di cui si ha timore a parlare perché è più facile delegare i disastri di una città e di una nazione a chi sta sopra di noi?

Se si rilegge la storia politica degli ultimi 25 anni con la chiave dell’analfabetismo politico, un filo rosso lega il successo repentino del leader o partito politico emergente con le promesse elettorali di Berlusconi, gli 80 euro di Renzi, il reddito di cittadinanza dei 5Stelle. Questo fil rouge è la grande difficoltà di milioni di italiani non solo di guardare oltre l’uscio del proprio domicilio, ma anche di comprendere la fondatezza delle dichiarazioni dei leader politici di volta in volta emergenti. Di capire la solidità dei programmi proposti. Chiunque avesse letto un trattato elementare di scienza politica avrebbe dubitato fin dall’inizio fortemente sulla natura realmente democratica e partecipativa della “rivoluzione” pentastellata. Chiunque avesse avuto cognizioni di base di economia si sarebbe chiesto se davvero i bonus renziani sarebbero stati in grado di ridare slancio all’asfittica economia nazionale.

L’Italia, però, non è solo la nazione dei Berlusconi, dei Renzi e dei Grillo. E’ anche la nazione dove si leggono meno libri in Europa, dove l’istruzione delle scuole primarie e secondarie è misurata con i test a crocette, dove i grandi quotidiani informano i cittadini più sull’andamento del processo al paparazzo Fabrizio Corona che non alle questioni del cambiamento ambientale o della crisi economica mondiale. E’ lo Stato in cui si registra la più elevata concentrazione della proprietà dei mass media, dove il cittadino medio trascorre davanti alla televisione più ore di tutti i suoi pari nell’intero continente e dove nelle Università l’obiettivo dell’apprendimento sono i crediti formativi e non il dibattito e la capacità di riflessione critica sui fatti.

Che tipo di democrazia si può prospettare se questo continuerà a essere il trend di preparazione e incentivazione allo sviluppo di una cultura politica di base estesa a tutti? Che cosa ci si può attendere se non l’avvento e la repentina caduta di comici che il giorno prima di Natale postano in rete l’elogio della povertà e il giorno dopo festeggiano il Capodanno con Briatore in un resort di lusso in Kenya?

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