La querelle sulla post-verità sta assumendo toni ormai stucchevoli e sullo sfondo volteggia prepotente la volontà di censura. Per l’Oxford Dictionary, la parola post-truth, intesa come “falsa verità”, sarebbe la parola dell’anno 2016. Ma è anche questa una post-truth, dovuta magari alla memoria corta. Che dire, ad esempio, del 2003, anno in cui, come scrive sir John Chilcot, relatore del rapporto britannico sulla guerra in Iraq, “Gli Usa e la Gran Bretagna minarono l’autorità dell’Onu”, attraverso loro esponenti apicali, i quali prospettarono, “con una certezza che non era giustificata” e dunque contrariamente al vero, l’azione militare contro Saddam Hussein, accusato falsamente di disporre di armi di distruzione di massa? Si tratta, all’evidenza, di un tipico caso, oltretutto non isolato, di disattenzioni selettiva, per spiegare la quale sembra sia appropriata la contrapposizione fra illusione e disillusione, nel senso di dissipamento dell’illusione.

È sempre à la page la considerazione dei fenomeni politici come fenomeni d’illu­sione e dello Stato come una sorta di teatro. L’uomo politico, il ceto politico non sono, in questa concezione, burattinai nascosti nel buio a tirare i fili che muovono, o spesso tengono fermi, i burattini, ma attori, recitanti sopra una scena a consumo di coloro che, nel teatro, stanno dalla parte del pubblico. Illusorio è, comunque, quel che si propone agli spettatori ed è da loro percepito secondo un codice semiotico diverso sia da quello che governa i reali rapporti fra i recitanti e dei recitanti con il pubblico stesso. L’uomo nella società democratica contemporanea, infatti, patisce assai spesso d’un eccesso di disillusione. Gli attori politici sulla scena vanno avanti nella recitazione, ma il codice semiotico che dovrebbe dar senso ai loro comporta­menti è ormai trasparente: sotto sono ben visibili rapporti secondo un altro codice, né nobili moralmente né belli esteticamente. Ma la disillusione è a sua volta illusoria: si tratta della sottile illusione inganna­trice di colui che si crede disilluso.

Di qui l’esigenza di distinguere ulteriormente fra “conoscenza” e “notizia”. Due i caratteri essenziali della prima: l’organicità e la controllabilità, estranei invece alla seconda: la notizia giunge attraverso una qualsiasi fonte, generalmente un mezzo di co­municazione di massa o la Rete; non è controllabile da chi la riceve, che non dispone né del tempo né dei mezzi necessari per il controllo: a lui potrà, al massimo, arrivare una smentita attraverso un’altra no­tizia; non è destinata, finalmente, ad inserirsi in una visio­ne organica: ogni notizia è subito superata, addirittura di­vorata da un’altra notizia, con la conseguenza che l’attenzione è continuamente richiesta e distolta, in una sequenza che produce assuefazione e stanchezza, con un sovraccarico psichico dal quale è possibile difendersi solo dimenticando. La notizia è, insom­ma, soltanto l’illusione della conoscenza.

Poiché lo Stato della conoscenza può essere contrapposto solo come un modello ideale allo Stato di illusa disillusione della notizia, occorrerà perseguire, difendendole e diffondendole il più largamente possibile, un’educazione e una cultura che preparino una reazione critica di fronte alla mistificazione dei signi­ficati, e tendano alla risoluzione critica della notizia nella conoscenza.

Quest’ultima, ben altrimenti dalla prima, è carica di conseguenze politiche: l’uomo, il cittadino della conoscenza, non si abbandona volentieri alle emozioni dello scandalo, ma è capace di ri­flettere sulle cause e sugli effetti, di programmare e di attuare, di te­ner lunga memoria in un quadro coordinato di vicende e situazioni, on­de nutrirne l’azione. Ben più e meglio della notizia, la conoscenza è inoltre nemica del segreto. Nemica forse meno aggressiva nell’immediato, ma insistente e costante, ostinata ed intransigente, sino a dominare e controllare i fattori che possono produrre l’esigenza e la possibilità stessa del segreto. La notizia, insomma, rivela un segreto, la cono­scenza tende invece ad una struttura in cui non abbiano modo di formarsi segreti.

Non è indifferente, com’è ovvio, capire di quale conoscenza stiamo parlando. Certo non di quella della comunità di villaggio, dove ogni informazione riguarda cosa sotto gli occhi di tutti e da tutti verifi­cata, che va a sistemarsi in un’organica concezione del mondo. Per dominare la complessità e la dispersione del mondo contemporaneo è necessaria, infatti, la conoscenza volta all’esempio di quel­la scientifica, dove nessuna informazione ha valore se non è suffragata da pubbliche prove e non si inquadra in una strut­tura teorica.

Ciò richiede, com’è evidente, la formazione di uno spirito critico e di attitudini al pensare sistematico. La battaglia non è facile: la pressione della notizia sulla conoscenza è fortissima.

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