Alla fine si sono visti. Donald Trump è entrato all’una nel palazzo del New York Times, sull’Ottava Avenue. Con un ascensore di servizio è salito sin nella Churchill Room, al sedicesimo piano. Qui l’aspettava l’editore, il direttore e alcuni dei giornalisti ed opinionisti del Times. Hanno pranzato. Trump ha detto alcune cose: che non intende perseguire penalmente Hillary Clinton; che è aperto a considerare l’accordo sul clima di Parigi; che il suo chief of staff Stephen Bannon non è un razzista. L’incontro è però servito soprattutto a una cosa: riavvicinare, sia pure per un momento, i due grandi nemici di queste elezioni. Donald Trump e, appunto, il New York Times.

Difficilmente, nella storia politica americana, il rapporto tra un giornale e un presidente è stato più burrascoso. Ancora pochi minuti prima di incontrarsi nella sede del Times, Trump twittava che il giornale “continua a scrivere di me in modo inaccurato e con un tono cattivo”. L’incontro, tra l’altro, è stato prima confermato, poi cancellato da Trump, poi riconfermato tra mille precauzioni (Trump ha voluto che una parte del meeting fosse limitata all’editore e off-the-record). In un altro tweet, poco prima dell’incontro, Trump chiamava il Times come l’ha chiamato per tutta questa campagna elettorale: The failing @nytimes, il Times sulla via del fallimento.

Non è ovviamente soltanto il quotidiano newyorkese a essere oggetto delle ire del presidente eletto. Lunedì una trentina di dirigenti e anchors delle principali tv hanno incontrato Trump nella sua Tower e sono stati inondati da una lunga serie di recriminazioni contro “i media disonesti”. Soprattutto CNN e Nbc News (per l’uso frequente di fotografie che metterebbero in evidenza “il doppio mento” di Trump) hanno avuto l’onore della citazione trumpiana. “Siete stati i peggiori”, gli ha detto Trump, che peraltro ha passato l’intera campagna elettorale insultando i giornalisti e soffiando sulla rabbia popolare contro  il Quarto Potere. A una conferenza stampa, lo scorso luglio, con tema “I nostri veterani”, Trump ha passato 40 minuti a chiamare i giornalisti “feccia”, “melma”, “disonesti”, “disgustosi”.

Con il New York Times, però, è tutta un’altra storia. Forse perché il Times è il giornale che Trump ha letto tutta la sua vita. Più probabilmente, perché il Times è il giornale che con più decisione ha combattuto Trump. Ecco alcuni titoli dedicati negli ultimi mesi al futuro presidente. “I documenti fiscali di Donald Trump mostrano che potrebbe aver evitato di pagare le tasse per quasi due decenni” (il tema di cosa ci potrebbe essere nei tax returns di Trump è stato tra i favoriti dal Times). “La lunga storia di Trump nel degradare le donne”. “Nessuna disponibilità per i neri. Come Donald Trump ha iniziato i suoi affari ed è stato accusato di discriminazione” (sull’esclusione dei neri dai contratti di affitto nelle proprietà immobiliari di Trump).

Un articolo dal titolo “Due donne dicono che Donald Trump le ha toccate in modo inappropriato” ha mandato su tutte le furie Trump e gli ha fatto minacciare una causa per diffamazione (che poi non c’è stata). L’editoriale della direzione, a pochi giorni dal voto, si intitolava “Perché Trump non dovrebbe essere presidente” e iniziava con la frase: “Donald Trump è un uomo bigotto, spaccone e di false promesse”. “Anche il Washington Post mi ha trattato male. Ma ogni tanto mi hanno anche fatto qualche buon articolo. Il Times, mai”, si è lamentato Trump. Ancora ieri, durante l’incontro con la proprietà e la redazione, il futuro presidente ci ha scherzato su, ma non troppo. “Leggo il Times. Purtroppo. Se non lo leggessi, potrei vivere almeno 20 anni di più”.

Il fatto è che il quotidiano newyorkese è stato quello che con più convinzione, tra la grande stampa, ha evidenziato un presunto “pericolo Trump”: il carattere eversivo rispetto alle regole più consolidate della politica di Washington; l’appello diretto e non mediato a vasti settori di popolazione impoverita, frustrata, in attesa dell’uomo della Provvidenza; le decine di episodi poco chiari – dalla Trump University alle dichiarazioni delle tasse tenute nascoste alla rete di interessi e investimenti in mezzo mondo – che lo renderebbero inadatto a ricoprire il ruolo di presidente; il rilancio di cui la destra razzista e suprematista bianca e protofascista ha goduto durante la campagna Trump.

Non si tratta, comunque, di un dato esclusivamente politico; di adesione o ripulsa nei confronti di un programma, un candidato, una piattaforma politica, un’idea di America. Nella guerra che il Times ha fatto, e continua a fare, nei confronti di Trump c’è infatti un elemento che riguarda lo stato dei media e il loro futuro. Va infatti detto che Trump, oltre a essere stato un bersaglio dei media (ciò che comunque lo ha anche avvantaggiato, potenziando la sua immagine di outsider e anti-sistema), ha rappresentato un enorme affare. Les Moonves, il CEO di CBS, ha spiegato lo scorso febbraio che “le bombe lanciate da Trump possono non essere una buona cosa per l’America, ma sono una dannatissima buona cosa per CBS”. Ed è stato calcolato che CNN ha guadagnato in pubblicità, durante la campagna di Trump, qualcosa come 100 milioni di dollari.

Il fenomeno Trump ha quindi giovato alle tv americane. Si è riversato, con tutti i suoi eccessi e la sua brutale carica distruttiva, sul pubblico e l’ha tenuto attaccato agli schermi – e alla pubblicità che passava tra un insulto e l’altro. La stessa cosa non si può dire per quotidiani e riviste. Pressati da bilanci sempre più precari, messi in discussione dalla concorrenza dei social, con redazioni ormai ridotte (Guardian, Wall Street Journal e New York Times hanno annunciato ulteriori forti riduzioni delle newsroom), i giornali americani sono stati travolti dal ciclone Trump, che li ha costretti ad abbandonare la tradizionale, almeno sbandierata, oggettività; che ha fatto saltare la distinzione tradizionale tra giornalismo alto e basso; che ha costretto a prendere posizione, a combattere in campo aperto contro un candidato che ha identificato media ed èlites e ha esposto i media alla furia popolare (soltanto il 40% degli americani, spiega Gallup, si fida dei giornalisti).

Oltre alle questioni legate alle trasformazioni nel sistema di produzione delle notizie, c’è un altro grande tema: quello della diffamazione. Sino a qualche tempo fa, la stampa Usa è stata governata da leggi che hanno concesso una libertà molto larga di critica, racconto, errore. Soprattutto la “New York Times v. Sullivan”, una sentenza della Corte Suprema del 1964, ha protetto giornalisti ed editori contro chi si sentiva offeso, diffamato, ferito dai resoconti giornalistici. Le cose, però, stanno cambiando. Il Media Law Resource Center spiega che i giudici danno ormai ragione ai giornalisti soltanto nel 39% dei casi. Crescono le somme di denaro che gli editori devono pagare, a titolo di risarcimento. Sono, oggi, cinque volte più alte delle cifre sborsate come risarcimento negli anni Ottanta.

In Gran Bretagna esiste un limite, 250 mila sterline, che i giornali possono essere costretti a pagare nel caso qualcuno si senta vittima. Negli Stati  Uniti questo limite non c’è e la cosa ha dato il via a una serie di cause milionarie contro gli editori. Il caso più clamoroso è quello di Peter Thiel, fondatore di PayPal, nel board di Facebook, unico tra i grandi imprenditori della Silicon Valley a prendere posizione a favore di Trump. Thiel si è sentito offeso e danneggiato da un pezzo di Gawker, un giornale on  line, che svelava la sua omosessualità. “Gente, Peter Thiel è completamente gay”, titolava Gawker nel 2007. Thiel, allora, non fece nulla. Ma in questi anni ha pazientemente finanziato una serie di cause per diffamazione contro Gawker. Restando sempre nell’ombra, ha alla fine mandato avanti un vecchio wrestler, Hulk Hogan, di cui Gawker ha pubblicato un video che lo mostra mentre fa sesso. Dopo una lunga causa giudiziaria, e con Hulk che si è detto “emozionalmente devastato” per quelle immagini, la giuria ha assegnato a Hogan 140 milioni di dollari in danni. Gawker ha dovuto chiudere.

C’è questo caso, e ce ne sono molti altri (un altro miliardario, Frank VanderSloot, ha aperto un fondo di due milioni di dollari per pagare le spese processuali a chi vuole portare in tribunale “la stampa liberal”) dietro l’avversione del New York Times e di grandi e piccoli giornali nei confronti di Donald Trump. Negli Stati Uniti la libertà garantita dal Primo Emendamento si restringe. I giornali rischiano sempre di più, a livello economico, per i propri resoconti e opinioni. Trump, da questo punto di vista, non ha mai fatto mistero del suo punto di vista. “Una delle cose che farò dopo aver vinto – ha detto lo scorso febbraio -… è allargare le leggi sulla diffamazione, di modo che quando scrivono articoli negativi e orribili e falsi, li possiamo querelare e strappargli un sacco di denaro. Così quando il New York Times scrive un pezzo che è una totale disgrazia, o quando il Washington Post ci molla un colpo, possiamo portarli in tribunale e vincere un sacco di denaro”.

Dietro l’avversione del Times, e di tanta altra stampa, nei confronti di Donald Trump c’è così un panorama mediatico sempre più incerto e in crisi. Ci sono spazi di libertà sempre più ristretti. C’è il timore che il futuro presidente li possa ulteriormente ridurre. “Spero che si possa andare d’accordo”, ha detto Trump ieri, soddisfatto al termine dell’incontro al sedicesimo piano del palazzo sull’Ottava. “Trump sembra venire meno a certe promesse”, recitava proprio in quel momento un titolo in prima pagina del giornale. Almeno per ora, non sembra comunque che il timore si sia tradotto in auto-censura.

TRUMP POWER

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