Il mancato blitz di Mezzojuso? Un condotta “negligente e poco solerte” che però non dimostra “con la necessaria certezza” la volontà di favorire la latitanza di Bernardo Provenzano. È quello che mettono nero su bianco i giudici della corte d’appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con la quale il 19 maggio scorso hanno assolto il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu.

Una decisione identica a quella assunta tre anni prima dai giudici di primo grado, secondo i quali il fatto contestato ai due carabinieri non costituiva reato. I due ex alti ufficiali del Ros erano accusati di non aver volontariamente arrestato il boss corleonese, ma per la corte d’appello quel blitz mai ordinato nelle campagne di Mezzojuso è solo “il frutto di una, pur sicuramente colpevole, sottovalutazione dell’importanza dello spunto investigativo”.

Il mancato blitz? Solo una “condotta negligente” – “Le superiori condotte non sono univocamente idonee – singolarmente e complessivamente considerate – a dimostrare la coscienza e la volontà degli imputati di impedire la cattura del Provenzano e, quindi, di favorire quest’ultimo”, scrive il giudice Salvatore Di Vitale nelle motivazioni dell’assoluzione di secondo grado. Provenzano era stato localizzato in una casolare di Mezzojuso il 31 ottobre del 1995: l’infiltrato Luigi Ilardo aveva allertato il colonnello Michele Riccio, ma i superiori del militare non diedero mai l’ordine di arrestare il bosso corleonese. “Si è evidenziato come la scelta attendista non fosse irragionevole e risultasse, almeno a quel momento, sostanzialmente condivisa dallo stesso Riccio; la scelta investigativa di privilegiare unicamente l’attesa di un nuovo incontro tra il Provenzano e l’Ilardo non era meramente pretestuosa o palesemente erronea, ed era stata condivisa, se non alimentata, dallo stesso Riccio, che ancora nelle due relazioni a sua firma del marzo 1996 indicava come imminente la prospettiva di un tale incontro”, sostengono i giudici. Che alla fine delle 350 pagine di motivazioni sottolineano come debba “ritenersi confermato che le contestate e pur sussistenti condotte degli imputati non sono idonee a dimostrare, essendo prive di univoco significato probatorio, che i predetti abbiano agito con la coscienza e la volontà di favorire il latitante Bernardo Provenzano, impedendone od ostacolandone la cattura”.

Favoreggiamento a Provenzano: per i giudici manca il movente – Dopo l’assoluzione in primo grado, il processo d’appello a Mori e Obinu era stato segnato da una sorta di cambio di strategia dell’accusa. Il procuratore generale Roberto Scarpinato e il sostituto pg Luigi Patronaggio avevano deciso di rinunciare a due importanti aggravanti contestati in precedenza ai due imputati: quello disciplinato dall’articolo 7, e cioè aver avvantaggiato Cosa nostra, e quello previsto dall’articolo 61, comma 2, del codice di procedura penale, che invece sanziona l’aver commesso il reato per assicurare a sé o ad altri il prodotto o l’impunità di un altro reato. In questo modo avevano praticamente “sganciato” il processo sul mancato blitz da quello sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, oggetto di un altro dibattimento al momento in corso davanti alla corte d’assise di Palermo, dove lo stesso Mori è imputato per violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato. Scelta che non è stata premiata dalla corte d’appello.

“Il pg ha implicitamente riconosciuto che il compendio probatorio acquisito al presente giudizio – e fatte salve le autonome valutazioni che i giudici della Corte di Assise di Palermo saranno chiamati ad adottare all’esito della istruzione dibattimentale che è ancora in corso di svolgimento – è insufficiente a dimostrare, con il requisito di certezza proprio del processo penale, la sussistenza della suddetta trattativa e, quindi, della relativa aggravante, così sostanzialmente condividendo le conclusioni cui è giunto sul punto il Tribunale con la sentenza impugnata”, scrive la corte, secondo la quale in questo modo “risulta venuto meno anche il movente”. Nell’originaria ricostruzione dell’accusa, infatti, la latitanza di Provenzano non era nient’altro che una “cambiale” da pagare a Cosa nostra dopo il Patto siglato per far cessare la stagione stragista. “Tuttavia- si legge sempre nelle motivazioni – se, come detto, le risultanze processuali sono inidonee – secondo lo stesso pg – a ritenere dimostrata la contestata aggravante del nesso teleologico, le stesse sono parimenti inidonee a provare la sussistenza del movente della trattativa”.

Il blitz di Terme Vigliatore: “Ultimo e i suoi non hanno saputo spiegare cosa facessero lì” – Ma non solo. Perché per i giudici il quadro probatorio contro i due ex alti ufficiali del Ros, non cambia “per effetto dei pur apprezzabili sforzi accusatori, volti a dimostrare che l’imputato Mori già in altre occasioni si fosse reso responsabile di analoghe condotte favoreggiatrici nei confronti di altri esponenti di primo piano di Cosa Nostra”. Il riferimento è ad una altro mancato blitz: quello di Terme Vigliatore, quando il 6 aprile del 1993 alcuni carabinieri guidati da Sergio De Caprio, alias il capitano Ultimo, scatenarono una sparatoria inseguendo il giovane Fortunato Imbesi, scambiato – a loro dire – per il latitante Pietro Aglieri. Per il pg Scarpinato gli effetti di quella sparatoria portarono alla fuga del boss Nitto Santapaola che si nascondeva nei paraggi. “Quanto verificatosi a Terme Vigliatore non appare rilevante ai fini del presente giudizio, non potendo ritenersi provato con la necessaria certezza né che il Mori abbia inviato il De Caprio sul posto al fine specifico di mettere sull’avviso il Santapaola ed impedirne la cattura, né che il De Caprio abbia effettivamente e consapevolmente operato in quest’ultimo senso”, scrive invece il giudice Di Vitale, che assolvendo Mori e Obinu aveva però anche ordinato l’invio degli atti alla procura con l’accusa di falsa testimonianza delle deposizioni dei sei carabinieri del Ros coinvolti in quel blitz. Il motivo? “Ciò che tuttavia è emerso dalle dichiarazioni dei predetti militari e che appare indubbiamente singolare ed in definitiva inquietante – scrive – è l’estrema difficoltà dagli stessi manifestata nel corso delle loro deposizioni nell’indicare e chiarire in modo plausibile le ragioni della loro presenza a Terme Vigliatore, incorrendo anche in palesi contraddizioni”.

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