La carica degli expat Oltremanica si ingrossa nonostante la Brexit. A partire, con il groppo in gola ma anche con la speranza negli occhi, sono sempre di più i giovani veterinari. Che si aggiungono alla colonia di infermieri e medici italiani arruolati negli ospedali di sua maestà britannica. Non ci sono numeri ufficiali, ma è una fuga che ormai procede a vele spiegate. E a fare tesoro dei nostri professionisti è soprattutto la Eville&Jones, una delle due società private a cui il governo inglese ha appaltato la sanità veterinaria negli allevamenti e nei macelli.

Paghe basse (spesso sotto i mille euro mensili), turni di lavoro massacranti, difficoltà anche per accaparrarsi tirocini gratuiti, spingono in particolare i laureati del Sud a fare le valigie. Come Davide Messina, quasi trentenne, che alla fine del novembre 2014 ha salutato Palermo e oggi vive a Oadby, vicino a Leicester, nel cuore rurale dell’isola. “Dopo la laurea – racconta – mi hanno preso per delle sostituzioni notturne, mi chiamavano solo quando avevano bisogno, circa una volta alla settimana, 35 euro per 12 ore di lavoro. Ho resistito per un mese, alla fine ho mollato. Nella seconda clinica invece ho fatto il volontario. Cinque mesi così, assurdo”.

Poi un post su Facebook gli ha salvato la carriera. “Sul gruppo social della mia facoltà era uscito un annuncio per un posto da veterinario in Inghilterra. Non ci ho pensato su un attimo e mi sono candidato”. Un colloquio su Skype e via, Davide ha voltato pagina. “Appena sono arrivato ho firmato un contratto a tempo indeterminato. Non sono diventato milionario, ma almeno ho uno stipendio dignitoso, riesco a mettere da parte 600 euro ogni mese, vivo in una casa grande, la vita qui non è tanto cara, e l’azienda mi dà la macchina”.

La Eville&Jones conta oltre 500 dipendenti, di cui la metà di nazionalità spagnola e rumena. Il resto sono polacchi, portoghesi, greci. Gli inglesi sono a malapena 15. Gli italiani in un paio di anni sono saliti a una cinquantina. E sono disposti a mettere da parte le loro aspirazioni (all’interno delle cliniche) e a fare quel che i colleghi britannici disprezzano, cioè gli ispettori nei macelli di carne bianca, rossa, halal e kasher. La domanda italiana è così alta e l’ente inglese così affamato di veterinari (assume 30 persone ogni due mesi) che a Reggio Calabria il 25 e 26 giugno è stato organizzato il primo recruitment day.

Il gancio è stato l’ordine dei veterinari locale, lo stesso che dovrebbe tutelare il lavoro degli iscritti in questo Paese, e non certo all’estero. Pazienza. “Si sono presentati 30 candidati, dal Lazio, Puglia, Sicilia, Calabria e Basilicata, e di questi più o meno la metà ha superato la prova”, spiega Michele Gallo, veterinario di 38 anni, emigrato anche lui da quasi sei anni da Messina a Chichester per la Eville&Jones, per cui oggi si occupa anche di reclutare nuovo personale. “Abbiamo già in mente di fissare altri due incontri dopo l’estate, uno nel centro Italia, l’altro al Nord. C’è molto interesse, dagli italiani ricevo ogni giorno messaggi con richieste di informazioni e di lavoro. Lo Stato purtroppo ti abbandona. Prima ti forma e poi ti scarta. Io mi sento un esiliato. Me ne sono dovuto andare dall’Italia perché la ditta per cui lavoravo non riusciva più a pagarmi”.

Il pacchetto che offre la società inglese è succulento. Chi viene assunto riceve in automatico l’iscrizione al Royal college veterinary surgery, cioè l’albo nazionale dei veterinari inglesi, “che apre le porte a futuri sbocchi professionali in terra anglosassone” specifica Michele. Inoltre, l’azienda dona un assegno di benvenuto di 300 pound, un cellulare, un’auto e tutto l’equipaggiamento (stivali, camici, coltelli, elmetto). Si fa carico anche dell’alloggio durante il training, che consiste in una settimana di corso teorico e un tirocinio pratico di 3-6 settimane. “Lo stipendio iniziale è di 1.500 euro al mese. Dopo sei mesi il contratto si rinnova e diventa a tempo indeterminato e il guadagno cresce a 2500 euro con possibilità di fare carriera. Si potrà diventare veterinari ufficiali con un corso di specializzazione all’università di Glasgow o Bristol spesato dall’azienda”. Insomma il solito triste copione a cui ci stiamo abituando a malincuore: lo Stato italiano che investe migliaia di euro (in questo caso 40mila euro l’anno) per formare risorse destinate ad altri Paesi. Il fatto che l’Italia sforni quasi il doppio del numero dei veterinari della Francia (32mila contro 17.500), è un altro problema ancora.

Davide per adesso non ha voglia di tornare in patria. “Perché mai? Leggo ogni giorno notizie sconfortanti, non c’è spazio per noi. Qui sono responsabile di tre macelli, uno di tacchini e gli altri due di pecore e bovini. Mi occupo di sicurezza alimentare e di benessere animale. In Italia non potrei mai fare tutto questo”. L’uscita del Regno Unito dall’Unione europea non lo spaventa più di tanto. “Quello delle carni è un business che non muore. La Gran Bretagna continuerà a esportare carne in Europa secondo le regole di sicurezza comunitarie. E poi la British veterinary association chiederà al governo che la nostra categoria venga protetta siccome il 90% delle risorse viene dai Paesi membri dell’Ue”.

Non partono soltanto i neolaureati, anche chi ha alle spalle anni di esperienza ma per lavorare ha smesso di vivere. Come Luca Racinaro, 40 anni, con moglie e figli. Ha un ambulatorio e segue 139 aziende. “Ma non è facile. Lavoro 12 ore al giorno, sette giorni su sette. Porto a casa tremila euro al mese, a cui van tolti i soldi per farmaci, attrezzatura, benzina. Quindi mi servono appena per sopravvivere. Non posso andare avanti così, sono sempre in viaggio, macino chilometri e chilometri in giro per la regione, mi prendo solo tre giorni di ferie l’anno. Le qualifiche che ho ottenuto nel tempo non mi ripagano, non è giusto. Ho un dottorato di ricerca, un post-doc, una specializzazione in fisiologia e patologia della riproduzione animale, due corsi di perfezionamento in Spagna e il mio guadagno è sempre lo stesso, anzi peggiorerà visto che oggi mi tocca inseguire i clienti per farmi pagare, in pochi riescono a saldare i conti serenamente”.

Luca aspira “a una carriera più lineare”, per questo fra qualche mese volerà in Inghilterra. “Mollerò tutto e non lo faccio di certo a cuor leggero. Partirò prima da solo e poi cercherò di sistemare la famiglia. Con l’azienda inglese ci sono prospettive di lavoro anche in Australia e Sud America. Ho bisogno di lavorare di meno per guadagnare di più. Che vita è altrimenti? Il rischio è di perdere lucidità e rimetterci la salute”.

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