Come ogni venerdì sera, la gente riempiva i locali e i ristoranti di Kadikoy, nella parte asiatica della città. Con l’arrivo della sera una brezza leggera stava soffiando via l’afa della giornata. Nelle meyhane si beveva il raki, il liquore al gusto di anice che diventa biancastro quando lo si allunga con l’acqua. Tutto come ogni venerdì sera, insomma. Fino a quando poco dopo le 10, un amico che doveva rientrare nella parte europea di Istanbul mi ha detto: “Non posso tornare con l’autobus, i due ponti sul Bosforo sono stati chiusi dalle forze di sicurezza”.
Da quel momento, il Paese è sprofondato in un lungo incubo dal quale non si è ancora del tutto svegliato. I locali hanno incominciato a svuotarsi, la gente si è riversata nelle strade come un fiume. Nessuna scena di panico ma l’agitazione e la preoccupazione erano palpabili. Captavo dei pezzi di conversazioni, delle frasi qua e là: “I militari stanno disarmando la polizia” “Stanno combattendo, si stanno sparando per le strade”. Una strana energia oscura serpeggiava tra la folla.
Per le strade di Kadikoy la gente si muoveva sempre più veloce, senza correre ma con lo sguardo fisso, parlando poco ma in maniera concitata. Nel giro di mezz’ora la gente stava prendendo d’assalto i bancomat, per paura di non poter più prelevare nei giorni seguenti. Come nell’attesa di una guerra civile, nessuno voleva rimanere senza soldi.
Nel frattempo, gli F16 sorvolavano Ankara, i carri armati invadevano le strade, i militari golpisti pendevano le televisioni e si lanciavano in proclami parlando di una nuova costituzione, di ripristinare lo stato laico e democratico “eroso dal governo”. Un copione che sembrava arrivare direttamente dagli anni ’70. Come se qualcuno avesse congelato questi militari 40 anni fa e li avesse scongelati ieri sera. Ma nel frattempo si diceva che Erdogan fosse in fuga, che stesse cercando rifugio in Germania e poi che i tedeschi gli avessero negato il permesso di atterrare e che stesse cercando rifugio a Londra, quindi che stesse per atterrare in Qatar.
Il silenzio della notte in una Istanbul in gran parte deserta, avvolta in un’atmosfera surreale veniva rotto dal rombare dei caccia, dalle esplosioni e dai colpi di armi di fuoco. I vicoli e le vie vuote, popolate soltanto dagli onnipresenti gatti, unici veri padroni delle strada. Ogni tanto qualche urla e qualche sporadico applauso degli oppositori di Erdogan che credevano il golpe fosse ormai riuscito e che si sono spenti quasi subito, lasciando spazio alle raffiche di mitra e alle esplosioni che scuotevano i vetri e perfino le mura delle case.
Tutto questo fino alle 3.16 del mattino quando il presidente si è presentato davanti alle televisioni all’aeroporto Ataturk dicendo: “Io non vado da nessuna parte, io sto con il popolo”. A quel punto, il golpe era già fallito. Gli spari e le esplosioni sono andate avanti fino all’alba e oltre. Nessuno sa quanto tempo ci vorrà per riportare il Paese alla normalità ma Erodgan ha vinto la sua battaglia.
Gli oppositori che si facevano i selfie davanti ai carri armati con il passare delle ore hanno lasciato, via via, il posto ai sostenitori del presidente, scesi per le strade a fronteggiare l’esercito. Ma i militari che pure hanno sparato sulla folla, non potevano ammazzare migliaia di persone. Il potere di Erdogan poggia su di un vasto sostegno popolare (non è un caso che abbia preso il 50% alle scorse elezioni). E proprio il suo popolo lo ha salvato ieri notte. La situazione non è ancora tornata alla normalità ma una cosa è certa quando tutto sarà finito, Erdogan sarà più forte di prima. I golpisti hanno fallito e, nel fallire, hanno lasciato sul terreno un numero di morti che cresce ora dopo ora.