Tra il 2009 ed oggi la Siae, la Società italiana autori ed editori potrebbe aver incassato decine di milioni di euro che, in realtà, non avrebbe mai dovuto incassare ed essersi ben guardata dal consentirne il recupero a chi si è visto indebitamente costretto a versare tale montagna di denaro.
Il tutto – è bene dirlo subito per evitare ogni fraintendimento – perfettamente, o quasi, a norma di legge, approfittando della circostanza che il Ministero dei beni e delle attività culturali cui la legge affida la disciplina della materia e la vigilanza sulla Siae ha, sistematicamente, preferito ignorare il problema ed avvallare una condizione di palese e diffusa illegalità.
Decine di milioni di euro che, per questa via, sono stati sottratti all’industria, ai professionisti e persino alla pubblica amministrazione, tutti egualmente costretti a versare un balzello che, con ogni probabilità, non avrebbe mai dovuto essere loro richiesto di versare e/o comunque avrebbero dovuto essere posti nella condizione di recuperare in maniera semplice ed effettiva.
La pietra dello scandalo – perché di scandalo alla luce del sole si tratta – è il famigerato compenso per copia privata, l’indennizzo che importatori e distributori di supporti [cd, dvd, pendrive, hard disk, ecc.] e dispositivi [smartphone, tablet, pc ecc.] astrattamente idonei alla realizzazione di una copia di un’opera protetta da diritto d’autore, sono tenuti a versare all’atto dell’immissione in commercio di tali prodotti per effetto di quanto previsto dalla legge sul diritto d’autore e dai decreti di attuazione varati periodicamente dal Ministero dei beni e delle attività culturali [gli ultimi due sono stati firmati il 31 dicembre del 2009 dall’allora ministro Sandro Bondi ed il 20 giugno 2014 dall’attuale ministro Dario Franceschini, ndr].
Quella dragata dall’industria Ict italiana e da quest’ultima – non sempre ma spesso – poi ribaltata su consumatori, professionisti e imprese e pubbliche amministrazioni è un’autentica montagna di denaro alta, solo nel 2015, oltre 150 milioni di euro.
E’ in questo contesto che le conclusioni che l’Avvocato Generale della Corte di Giustizia dell’Unione europea Nils Wahl ha formulato ieri ai giudici del Lussemburgo, scoperchiano, definitivamente, un autentico vaso di Pandora, giacché l’Avvocato Generale chiede alla Corte – alla quale Nokia Italia, Hewlett-Packard Italiana, Telecom Italia, Samsung Electronics Italia, Dell, Fastweb, Sony Mobile Communications e Wind Telecomunicazioni si sono rivolte per sentir dichiarare l’illegittimità della disciplina nazionale della materia – di dichiarare, senza esitazioni, senza “se” e senza “ma”, che la disciplina italiana in materia di copia privata è incompatibile con quella dell’Unione europea perché impone l’obbligo di pagamento del compenso per copia privata anche in capo a soggetti che non vi sarebbero tenuti perché vendono o acquistano dispositivi e supporti per scopi evidentemente professionali.
Non ha dubbi l’Avvocato Generale della Corte di Giustizia nel mettere nero su bianco che quando un soggetto vende ad un’impresa o ad una pubblica amministrazione un Pc, un hard disk, un tablet, uno smartphone o qualsiasi altro supporto o dispositivo la legge dovrebbe prevedere espressamente l’esonero dall’obbligo di pagamento di qualsivoglia importo mentre, al contrario, la disciplina italiana, sul punto, resta silente, lasciando che sia, eventualmente, Siae a valutare se, in che termini ed a quali condizioni talune categorie di soggetti possano chiedere ed ottenere di essere esentati dal pagamento del compenso in questione.
Un sistema che l’Avvocato Generale non ha esitazioni nel definire incompatibile con l’Ordinamento dell’Unione europea perché lascia una troppo ampia discrezionalità alla Siae e perché il diritto a non pagare alcunché quando si vende o si compra un dispositivo destinato ad essere utilizzato per scopi professionali dovrebbe essere chiaramente stabilito, in maniera generale ed astratta, dal legislatore.
Ed eccola, dunque, la prima sconfortante conclusione che può trarsi dalle conclusioni formulate ieri davanti ai giudici della Corte di Giustizia: per un lustro un pezzo del Paese ha versato decine di milioni di euro benché – norme europee alla mano – non avrebbe dovuto essere obbligato a farlo e, ciò che è peggio, in quel pezzo di Paese ci sono migliaia di amministrazioni dello Stato con l’ovvia conseguenza che i soldi in più versati nei forzieri della Siae e da quest’ultima in parte ripartiti secondo spesso discutibili ed in parte trattenuti, sono, quelli dei cittadini italiani.
Lo Stato, in sostanza, scrivendo male le leggi – poco conta se per ignoranza o per favorire i soliti amici degli amici – ha preteso dalla stessa Pubblica amministrazione e dalle industrie Ict il pagamento di un balzello, semplicemente non dovuto.
Ma non basta.
Nelle conclusioni formulate ieri a Lussemburgo, infatti, l’Avvocato Generale della Corte di Giustizia chiarisce che, egualmente, incompatibile con la disciplina europea è l’Ordinamento italiano laddove demanda, ancora una volta alla Siae, il compito di gestire i rimborsi a favore di chi abbia provveduto, senza esservi tenuto, al pagamento del compenso per copia privata.
Dovrebbe essere, infatti, la legge a stabilire chiaramente che chiunque – Pubblica amministrazione, persona giuridica o persona fisica – ha diritto ad ottenere il rimborso di quanto versato a titolo di compenso per copia privata qualora dimostri che il prodotto in questione sia stato acquistato per finalità di carattere professionale.
E il rimborso dovrebbero poterlo chiedere, indistintamente, i distributori di tali supporti e dispositivi ed i loro acquirenti mentre, allo Stato, la Siae – scrive l’Avvocato Generale – sembrerebbe negarlo sistematicamente alle persone fisiche e riconoscerlo alle sole persone giuridiche acquirenti dei supporti e dispositivi e non anche ai distributori che, pure, talvolta scelgono, per ragioni commerciali, di pagarlo ma non ribaltarlo a valle, sugli acquirenti.
Tutto egualmente fuori legge o, almeno, questa è la netta sensazione dell’Avvocato Generale in attesa che i giudici di Lussemburgo si pronuncino definitivamente sulla questione.
Ed ora? O, meglio, tra qualche mese quanto, salvo colpi di scena, la Corte farà sue le indicazioni dell’Avvocato Generale?
Difficile dire cosa accadrà ma val la pena di iniziare a pensare a cosa dovrebbe accadere: chi ha pagato ciò che non avrebbe dovuto pagare dovrebbe riaverlo indietro in maniera semplice, immediata ed effettiva e le regole – primo tra tutti il cosiddetto decreto Franceschini del giugno del 2014 – dovrebbero essere cambiate di corsa per adeguare la disciplina nazionale a quella europea.
A restare – se anche tutto ciò avvenisse per davvero – sarà il rammarico di un Paese che talvolta per pressapochismo e superficialità, talaltra perché troppo sensibile al fascino delle lobby di pochi in danno degli interessi dei più, nell’ultimo lustro ha continuato a chiedere ad un pezzo del Paese di pagare milioni e milioni di euro che avrebbero potuto e dovuto essere investiti diversamente.
Nota di trasparenza: scrivo di compenso da copia privata sin da tempi non sospetti ma nella vicenda all’origine del giudizio di cui si parla in questo post ho assistito professionalmente Altroconsumo