“Quello che ho avuto dalla vita, in fondo, non me lo sono meritato, né in positivo né in negativo. Mi sono preso morti di cari, depressioni, un infarto, disamori, tante donne e nessuna”. A parlare è Franco Scelsit, scrittore milanese, cinquant’anni, appena scampato a un attacco di cuore, che beffardamente elenca i “grandi momenti” della sua vita. Grandi momenti è il titolo di questo romanzo, l’ultimo di Franz Krauspenhaar, in libreria dal 28 aprile per Neo. Edizioni.
Scelsit vive insieme all’anziana madre, che nel racconto è ribattezzata “il colonnello“, e col fratello pittore, in un ménage familiare rancoroso, fossilizzato, e tuttavia ineludibile. Culturalmente non lo interessa nulla che abbia meno di vent’anni e cede continuamente al ricatto dei sensi. Nonostante il colpo al cuore, infatti, beve troppa birra, e ha il vizio bambinesco e tipicamente maschile delle macchine di grossa cilindrata. Un lusso che può permettersi solo da quando Santiloni, un editore “da autogrill”, gli ha fatto firmare un contratto per quattro gialli che hanno per protagonista il poliziotto Stan Dolero – “italoamericano, il fisico tappato di Edward G. Robinson, la follia di Paul Muni, la criminalità perversa di Peter Lorre” – da pubblicare con lo pseudonimo di Rodolfo Simonetti. Nel suo garage ha una Jaguar E Type del ’67, una vecchia belva inglese con cui Scelsit esce solo in certe ore della notte per delle fulminanti corse a 240 all’ora che servono a mettere alla prova le sue palle d’acciaio e il suo cuore smagliato.
Durante una di queste scorribande solitarie, Scelsit fa un incontro struggente col fantasma del padre: “Ho visto mio padre correre nella bruma della campagna lombarda. Si produceva in ampie falcate, mentre io, per un attimo, gli ho tagliato il corpo con la luce dei fari. L’ho colto nel suo saltare di lepre enorme nell’erba gelata. L’ho visto andare verso la tana, come un animale senza più voce, un animale libero nella natura e nell’anima”. L’assillo del padre morto, come ne Il male oscuro di Giuseppe Berto, romanzo a cui istintivamente mi ha rimandato la lettura di Grandi momenti, è il nodo scorsoio su cui scivola la storia. Il padre col volto da lepre è l’allegoria di un abbandono che per il protagonista resta il grande irrisolto della propria vita, il vuoto che lo spinge verso una bulimia che riguarda tanto il sesso quanto la scrittura, entrambi vissuti come bisogni senza possibilità di soddisfazione. Scelsit figlio, con il cuore malandato, assiste allo spettacolo della velocità di Scelsit padre, reincarnato in una lepre, ossia in un animale dotato di un cuore capace di oltre duecento battiti al minuto, una velocità che il figlio non può raggiungere neppure con l’aiuto delle macchine più veloci della terra.
Come nei personaggi di Berto, anche in quelli di Krauspenhaar la ricerca esasperata del proprio posto nel mondo, il rifiuto ostinato della vita che si pratica in città lugubri e spietate (per Berto era Roma; qui è Milano), una malattia di cui non ci si può liberare, e l’aspirazione a scrivere il capolavoro capace di rendere la gloria che sfugge, sono i temi portanti di un discorso letterario che intendeva allora – e intende ancor oggi – provocare e smarrire, anche attraverso l’uso di una lingua che alterna registri potentemente lirici a momenti di selvaggio sarcasmo. Attorno a Franco Scelsit e alla sua rieducazione, prende corpo un’umanità rassegnata ma ancora vitale. I cardiopatici si incontrano durante le sedute di riabilitazione post-infartuale, organizzano le “cardiopizze”, sono una specie di allegra, e al contempo disperata, compagnia di reduci. Una birra, una sigaretta, diventano un azzardo liberatorio, una disubbidienza di cui gloriarsi. Grandi momenti è un romanzo che – come tutta la produzione letteraria di Franz Krauspenhaar – trasuda veemenza, iperestesia, acutezza, che scardina tutti i piccoli e grandi camuffamenti di cui si correda il grosso dell’odierna narrativa-col-paracadute. È un libro che sembra scampato al tritacarne, ed è una lettura di cui andare fieri.