Nanirossi

GENOVA – Gli “under 35” sono una categoria palliativo per nascondere altre magagne del teatro italiano. Sembra una riserva indiana, confinati, recintati, e con lo scoccare della trentacinquesima primavera là fuori farà freddo. C’è chi si costruisce una carriera, chi ci finanzia le stagioni. Poi, vista la nostra bassa natalità, finiranno anche gli under e allora ci sarà una fitta schiera, un folto compartimento, un abbondante ciurma nella terra di mezzo, lì tra le onde ministeriali. Ancora per qualcuno è salvezza, per altri, pochi, trampolino. Sta di fatto che iniziative come quella genovese di Intransito sono applaudite per serietà, visibilità, organizzazione.

Tre le compagnie che hanno messo in piedi il programma, Teatro Akropolis di Sestri Ponente, La Chascona di Sori, le Officine Papage di Pomarance, sei i gruppi finalisti a contendersi la seconda edizione del concorso biennale Intransito, con 1.500 euro di premio di produzione. In giuria esponenti della rassegna Teatri di Vetro di Roma, il festival Trasparenze di Modena, il Teatro della Tosse di Genova, la compagnia Cuocolo/Bosetti di Vercelli, il sito di critica teatrale Dramma.it.

Sei compagnie, provenienti da Genova, Milano, Brescia, Massa Carrara, Torino e La Spezia. Nella due giorni un livello medio-alto, qualche spunto interessante, teatro pieno, bel fermento. Il linguaggio, le citazioni, i riferimenti televisivi l’hanno fatta da padrone in maniera evidente. Se la tv è la mamma, il teatro (anche per chi lo fa) è un parente lontano, poco frequentato e forse poco raccomandabile.

In Amami, baciami, amami, sposami, menzione speciale (da una canzone di Adriano Celentano, poi ovviamente fatta ascoltare) il tema di fondo del Teatro Campestre era appunto il matrimonio. Se l’intuizione del reality era interessante e coglieva nel segno, lo svolgimento ha lasciato perplessità e più di un dubbio visto che la tesi di fondo era che la donna necessariamente deve avere al suo fianco un uomo che la faccia risplendere. Come dire l’uomo è il Sole e la donna la Luna, il primo produce calore, la seconda vive di luce riflessa. Se trentenni intelligenti portano avanti queste consapevolezze significa rimangiarsi in un solo boccone quarant’anni di lotte e conquiste femminili prima che femministe. Manca infatti il sarcasmo, quando si esalta la vita a due per combattere la solitudine, o quando si tratteggia il matrimonio come assicurazione sulla vita, tassello di sicurezza in questo mare di individualismo e incertezza, precariato e infelicità. La donna, secondo i Campestre, non deve essere autonoma e indipendente, e si dichiara fragile con un disperato bisogno di un uomo al proprio fianco per potersi sentire protetta, al sicuro per un happy end, per un “e vissero felici e contenti” anacronistico.

Uno dei migliori pezzi, a nostro avviso meritava di più, è stato quello dei bresciani capitanati da Francesca Franzé con Ommioddio, dove un’anziana divorata dalla solitudine è visitata da un alieno arrivato sulla Terra per godersi l’imminente fine del mondo. Un alieno che ha sembianze umane e che fa scattare, dopo le prime diffidenze, nella signora ottuagenaria, l’affetto di un nipote o di un figlio o di un amore giovanile. La paura iniziale dell’intruso, dell’invasore, del diverso, si trasforma in attesa del suo ritorno, nei pochi ultimi momenti felici. Un marziano, a metà tra il nano-nano di Robin Williams e il Piccolo Diavolo di Benigni, che parla con le frasi di pellicole celebri (“Adoro l’odore del napalm al mattino”, “Houston abbiamo un problema”, “Francamente me ne infischio” o “Telefono Casa”, “Hasta la vista baby”, “Che la forza sia con te”, “Sono in missione per conto di Dio”, per citarne alcune) e ha il mito di Bruce Willis, l’unico che secondo lui potrà salvare la terra dall’impatto finale. Molleggiato come l’Adriano nazionale, con fruit bianca come Fonzie o Grease, ricordando gli extraterrestre dei Sacchi di Sabbia o quelli di celluloide di Gipi. Una grande umanità, tenerezza, dramma esistenziale spruzzato di ilarità.

Ci hanno colpito i Nanirossi, vincitori della manifestazione, con Sogni in scatola, miscelando poesia e giocoleria, acrobazie pericolose, atletismo e la magia di un sentimento amoroso trattato in maniera non scontata. Utilizzando l’escamotage delle scatole di cartone, prima muro invalicabile come ne stanno nascendo di nuovi in mezza Europa, clochard che hanno la loro tana all’interno di sottili pareti di carta compressa (ricordano le case dei Tre Porcellini), e dello scotch, che da un lato ripara ciò che è rotto e dall’altra lega e imbavaglia, il duo ha costruito una semplice storia, a due piani, delicata e candida, dove spiccava il tip tap scoppiettante sui pallini di cellophane o la doccia con i cubetti di polistirolo: la nostra società di plastica, i nostri amori di plastica, come cantava Carmen Consoli.

Nelle criticità i tre finali, difetto comune che indica la mancanza di un occhio esterno, e quel passaggio dove si vede la ragazza con una cintura esplosiva da kamikaze fatta con plastica imbottita da imballaggi, decisamente fuori luogo visti i tempi. L’amore è una costruzione fragile, un Icaro perenne, una Torre di Babele. Parafrasando Fossati: “L’amore è tutto cartone da decifrare”.

Presuntuoso invece L’ultimo Kaligola degli Scarti, dove uno scienziato pazzo, con aiutante tonto che pare uscito da I soliti idioti, una sorta di parodia di Frankenstein Junior, riesumano il corpo ibernato dell’imperatore romano fratello-amante della sorella Drusilla, chiuso dentro una bolla che tanto sa dell’ambra con la zanzara incastonata dalla quale estrarre il dna dell’ultimo dinosauro di Jurassik Park. In quest’impianto, scomodano anche Camus e Il tempo delle mele: invocano un despota prima liberale al limite della lascivia e sanguinario? Gli Scarti si dimostrano eccessivi e caotici, dediti più a un impatto visivo che contenutistico.

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