Volkswagen

Prima la frode sulle emissioni dei veicoli diesel negli Stati Uniti, poi l’estensione dell’indagine dell’Epa (agenzia federale di protezione dell’ambiente Usa) ai veicoli Audi e Porsche e, dalla settimana scorsa, i trucchi sulle emissioni di Co2. Lo scandalo che dalla fine di settembre ha travolto il gruppo Volkswagen sembra non avere mai fine. Non è però la prima volta che succede. Nel 2005 il gigante tedesco delle automobili era finito nella bufera per un bonus da 1,9 milioni di euro pagato all’allora direttore del consiglio di fabbrica (Betriebsrat) Klaus Volkert in cambio del consenso del sindacato sulle strategie aziendali. Altro denaro era stato versato sui conti correnti di alcuni consiglieri regionali della Bassa Sassonia, in quota Spd, loro stessi ex manager di Volkswagen. Per non parlare dei viaggi dei dirigenti sindacali allietati da prostitute, modelle e notti brave, dove veniva distribuito un tubetto con tre pillole: “Aspirina per la mattina, un calmante per il pomeriggio e viagra per la sera”.

Vicende passate, sepolte negli archivi dei giornali, che però sono terribilmente attuali. Il problema del gruppo Volkswagen, infatti, è sempre lo stesso: una governance intricatissima che cerca di comporre, con un continuo esercizio di equilibrismo aziendale, interessi tra loro contrapposti. I poteri in conflitto sono almeno tre: gli azionisti, a caccia di profitti e dividendi, i lavoratori, che vogliono conservare i posti di lavoro e il livello dei salari e la regione della Bassa Sassonia (che è anche azionista) con politici che cercano di essere rieletti. Ricorda molto, con i dovuti distinguo, il “groviglio armonioso” tra politica, banca, fondazione, sport e stampa locale che ha affossato il Monte dei Paschi di Siena.

Gli azionisti sono composti da tre blocchi principali: le famiglie austriache Porsche e Piëch, con il 52,2% del capitale, il fondo sovrano del Qatar (17%) e la regione Bassa Sassonia (20%), che fino allo scandalo del 2005 era l’azionista principale. A prima vista il 52,2% sembrerebbe essere più che sufficiente per esercitare il controllo. Ma non è così. All’interno del Consiglio di Sorveglianza, l’organo di direzione “politica” e di controllo nel sistema di governance duale tedesco, siedono venti membri: dieci nominati dal sindacato unico dei metalmeccanici Ig Metall e altri dieci dal capitale. Di questi, quattro rappresentano le famiglie Porsche e Piëch, due il fondo del Qatar e altri due la Bassa Sassonia. Il nuovo presidente, Hans Dieter Pötsch, è stato direttore finanziario del gruppo fino al mese scorso ed è considerato vicino alle due famiglie. Manca all’appello un solo scranno, occupato dall’amministratrice delegata della banca svedese Seb, Annika Falkengren. L’unica che dovrebbe essere indipendente, almeno sulla carta. Seb è però la banca di riferimento di Scania, il produttore di veicoli industriali che fa parte del gruppo Volkswagen.

Quindi il sindacato ha di gran lunga il maggior numero di consiglieri (10). I lavoratori sono così potenti – ha sottolineato il Financial Times qualche giorno fa – che Volkswagen sembra una cooperativa. Lo stesso ex amministratore delegato Martin Winterkorn, che si è dovuto dimettere travolto dalla scandalo emissioni, è stato sempre pesantemente condizionato da Ig Metall. Come se ne esce? Ripensando completamente il sistema di governance, ridimensionando lo strapotere del sindacato e lasciando spazio a un numero adeguato di amministratori veramente indipendenti. Ma da quanto si capisce, nessuno è pronto a scommettere che qualcosa cambierà veramente. A quel punto il prossimo grande scandalo sarà solo questione di tempo.

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