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Alzi la mano chi, ai tempi della nota rivalità con gli Spandau Ballet, rivalità buona giusto per costruirci su una certa iconografia, è chiaro, avrebbe mai potuto pensare che oggi, a distanza di oltre trent’anni, ci saremmo trovati qui a cantare le lodi di questi giganti del pop che rispondono al nome di Duran Duran. Niente. Nessuno ha alzato la mano. Il deserto dei Tartari. Perché, chi scrive all’epoca della rivalità era troppo piccolo per presagire futuri che non fossero relativi alla settimana successiva (e in tutti i casi avrebbe tifato più per outsider come Prefab Sprout o Scritti Politti), ma la critica non è che avesse un respiro tanto più lungo, i Duran Duran sono stati a lungo considerati una sorta di prodromo delle boy band, in un periodo in cui di boy band ancora non si parlava.

Erano bellocci, glamour, c’era chi si voleva sposare Simon Le Bon, figuratevi, perché mai avremmo dovuto prenderli anche in considerazione per le loro canzoni. Canzoni che erano belle, oggi lo possiamo dire, che nascevano come hit e hit, in effetti, diventavano, passando poi allo status di ever green. Sorte, questa, capitata un po’ meno ai rivali di allora, gli Spandau, che per una sorte del destino che non stiamo qui a tirare troppo per la giacchetta, hanno avuto un futuro meno sgargiante di quello di Simon, John, Nick e Roger, tornando solo recentemente a raccogliere quanto avevano seminato nei tanto bistrattati anni Ottanta.

Chiaro, citare così en passant gli anni Ottanta, quando si scrive dei Duran Duran potrebbe suonare pretestuoso, un modo come un altro per provocare il lettore, il fatto è che recentemente è uscito il nuovo lavoro di studio della band inglese, e una volta ascoltato con calma si può serenamente affermare che, questa sì che è la notizia, i Duran Duran suonano contemporanei tanto oggi quanto allora. Dopo un periodo in cui erano finiti nel dimenticatoio, perché il passato è sempre duro da far digerire alle generazioni successive alla propria, ormai da qualche anno Simon e soci sono tornati in auge, al punto che leggere un comunicato stampa in cui Paper Gods, questo il titolo del loro quattordicesimo album di studio, viene presentato come l’album Pop dell’anno, come fa la loro casa discografica, suona eccessivo fino a un certo punto.

Del resto, i produttori che hanno affiancato alla band in studio, già solo quelli, sono tra i migliori in circolazione, da Mark Ronson, che come è noto non sbaglia un colpo dai tempi di Amy e che già aveva accompagnato i nostri i All you need is now del 2010, a Nile Rodgers, che a dirla tutta non sbaglia colpi da molto prima, passando per Mr Hudson. Josh Blair e, tra i collaboratori, il nostro Davide Rossi, già a fianco di Brian Eno e Coldplay, tra gli altri, Janelle Monae e Kiesza. Poi c’è un nome, che a vederlo in una band anzi, in una band come i Duran Duran, non esattamente una band e basta, fa venire non poca curiosità: John Frusciante.

Il chitarrista, uscito nuovamente dal gruppo (sì, quello era Jack, ma ci siamo capiti), archiviata per ora la parentesi Red Hot Chili Peppers presta le sue sei corde ai Duran Duran, collaborando in tre brani presenti nei dodici della tracklist ufficiale, e in uno dei tre brani che vanno a comporre le tracce aggiunte per la versione Deluxe. Insomma, non proprio un ingresso in lineup ma quasi.

Del resto il suono della band era ed è prevalentemente legato al suono delle tastiere di Nick, ieri come oggi (oggi più di ieri). E ieri come oggi la band osa. Il pop di Paper Gods non si limita a percorrere sentieri squisitamente mainstream, ma come in tutta la produzione precedente, compresa quella non baciata dalla fortuna commerciale di masterpiece come Rio, si incammina in territori più sperimentali, orientati alla dance e addirittura alla Edm (Electronic dance music). mostrando suoni più duri, ostici. La titletrack, per, dire, tocca i sette minuti, in barba a radio e tv musicali. E altrettanto estremo è Last night in the city, talmente calvinharrisiana da non risultare quasi brano della band. Band che invece è riconoscibilissima in Face for today, o nella ballata You kill me with silence, davvero blu. Poi c’è il singolo apripista Pressure Off, trainato dai suoni di Rodgers e Ronson, magari poco originale ma efficacissimo, e la notoriussiana Only in dreams. I due picchi dell’album, in alto e a lato, arrivano con The universe alone, con un gigantesco Frusciante e un inquietante e onirico coro di bambini, e Danceophonia, una delle canzoni più surreali sfornate da Simon e soci da sempre, con tanto di feat di Lindsay Lohan, voce recitante.
Ecco, non fosse che nel mentre il pop ha sfornato qualche altra decina di nomi fondamentali, verrebbe da presagire per Paper Gods un futuro simile proprio a Rio, probabilmente l’album cui, per spessore compositivo e stato di grazia nell’esecuzione, il nuovo lavoro si avvicina di più. Simon Le Bon impeccabile, band sul pezzo, dieci e lode.

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