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Viste le reazioni, tra insulti, commenti, condivisioni, al mio post precedente (“Il conto salato degli studi umanistici”) mi sembra che la domanda sia cruciale e meriti un ritorno: all’università bisogna studiare quello che serve a trovare un buon lavoro o quello che piace di più?

Vi riassumo la questione: il centro studi di Bruxelles Ceps ha pubblicato uno studio (che una delle sue autrici, Ilaria Maselli, ci racconterà nel dettaglio su carta nei prossimi giorni) che arriva a queste conclusioni sull’Italia: fatto 100 il valore medio attualizzato di una laurea a cinque anni dalla fine degli studi, per un uomo laureato in Legge o in Economia (o Scienza politiche, che però credo abbassi il valore medio) è 273, ben 398 se in Medicina. Soltanto 55 se studia Fisica oInformatica (le imprese italiane hanno adattato la propria struttura su lavoratori economici e poco qualificati). Se studia Lettere o Storia, il valore è pesantemente negativo, -265. Cioè fare studi umanistici non conviene, è un lusso. Che bisogna potersi permettere.

Le critiche dei lettori sono state di vari tipi. In primis attacchi personali, dovuti essenzialmente al fatto che io ho studiato alla Bocconi. Cosa giudicata, per ragioni a me misteriose, disdicevole. Breve incisto personale, ammesso che interessi a qualcuno: se guardo al mio percorso universitario con la logica dello studio del Ceps, come investimento finanziario è stato ottimo. I miei genitori, non certo senza sacrifici, hanno investito parecchio sulla mia educazione. Solo di tasse universitarie cinque anni in Bocconi costano circa 50mila euro, più le spese come studente fuori sede ecc. Non potevo accedere a borse di studio e sostegni perché riservati alle famiglie con redditi più bassi della mia o a quelle degli evasori fiscali, che risultano poverissime.

La nomea dell’università e – mi piace pensare – le conoscenze e le competenze acquisite mi hanno permesso di trovare subito il lavoro per il quale mi stavo preparando, cioè il giornalista, e di avere un reddito sufficiente a ripagare in pochi anni l’investimento iniziale (ripagare per modo di dire, perché i miei genitori non mi hanno chiesto i soldi indietro). Anche io avrei preferito studiare scienze politiche o filosofia, ma alcune persone sagge più vecchie di me mi hanno consigliato di fare qualcosa di più utile e meno divertente. Mi sa che avevano ragione.

Veniamo ai dati generali. Il consorzio Almalaurea ha intervistato nel 2014 i laureati del 2009 per capire come stavano andando le loro carriere. Gli uomini laureati in ingegneria guadagnano 1759 euro, quelli in medicina 1668, quelli in materie scientifiche 1653, chi ha studiato economia e statistica 1602. Quelli che guadagnano meno: chi ha studiato scienze della formazione, 1201, chi ha fatto studi letterari, 1263, chi giuridici, 1305 (ma quest’ultimo dato è poco rilevante: un avvocato o un magistrato inizia davvero la sua carriera quasi due anni dopo la laurea ma poi progredisce molto in fretta nel reddito). Per le donne le differenze sono simili, ma guadagnano sempre circa 200 euro in meno dei maschi.

Più interessante il tasso di disoccupazione, numeri che i tanti che qui nei commenti dicono ai loro ragazzi di studiare solo “quello per cui si sentono portati” dovrebbero tenere bene a mente, magari con qualche senso di colpa. A cinque anni dalla laurea il tasso disoccupazione tra chi ha studiato medicina è 1,5 per cento, tra gli ingegneri il 2,9 per cento ma schizza al 17,3 tra chi ha studiato materie letterarie, al 14,6 per le materie giuridiche (che, di nuovo, meriterebbero una categoria a parte), 13,6 per cento per “geo-biologia”, 12,9 per psicologia, 12,5 per scienze della formazione. Chi studia materie letterarie, quindi ha un tasso di disoccupazione che è quasi il doppio della media, pari a 9,2 per cento. E non stiamo parlando di una disoccupazione immediata, fisiologica, di assestamento, ma a cinque anni dalla laurea.

Morale: cari ragazzi, studiate pure quello che vi piace, tipo filosofia o scienze della comunicazione, ma mettete in conto che a cinque anni dalla laurea avete ottime possibilità di essere disoccupati e con un reddito da operaio non specializzato. E a cinque anni dalla laurea significa avere 28-29 anni, che è già l’età in cui si può cominciare a ragionare di famiglie, figli e tutto il resto. Cosa che fanno spesso, per esempio, le dottoresse specializzande, che hanno figli quando entrano in specialità dove hanno anche diritto alla maternità.

Se poi volete comunque studiare filologia romanza o teatro, se ve lo potete permettere o se vi attrae un’esistenza da intellettuale bohemien, fate pure. Affari vostri. L’importante è che siate consapevoli del costo futuro che dovrete pagare.

Dal lato delle scelte collettive, cioè le politiche pubbliche, dovremmo tutti chiederci se ha senso sussidiare pesantemente università che producono disoccupati e formano persone che nessuno sente il bisogno di assumere o retribuire adeguatamente. Tradotto: meglio avere molte facoltà di filosofia e scienze della comunicazione o chiuderne qualcuna e magari dare più incentivi alla ricerca in campo chimico o elettronico? Parliamone.

Nessuno dice che le materie che si studiano nelle facoltà che garantiscono redditi bassi e disoccupazione siano da disprezzare (con qualche eccezione, magari, ma di corsi inutili se ne trovano ovunque). Anzi, spesso sono interessantissime e cruciali per la nostra formazione come individui. Ma quello che forma l’individuo non necessariamente è utile anche a formare un lavoratore.

E’ un diritto – costoso, per la collettività – poter studiare quello che ci piace. Ma nessuno ha il dovere di pagarci per il resto della vita uno stipendio se quello che piace a noi a lui non interessa.

P.S. Molti dei commenti confermano l’idea molto italiana che la cultura sia solo la cultura umanistica. Che non conoscere a memoria i versi di Dante su Paolo e Francesca sia sintomo di ignoranza ma sia legittimo e perfino salutare non sapere cosa sono le derivate o la teoria della relatività. E’ un Paese, questo, in cui sugli Ogm hanno la stessa legittimità le tesi della senatrice a vita Elena Cattaneo e quelle di Vandana Shiva. Tanto conta la qualità della scrittura, dell’argomentazione, la passione. Non i dati, i numeri. La cultura scientifica, quella che classifica come serie (o vere) solo le tesi dimostrabili (e confutabili), è riservata a poche minoranze guardate con sospetto.

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