La personalità. Il carisma. La capacità di “dire le cose come sono”. E’ con questo bagaglio, al momento piuttosto leggero, che Chris Christie entra nella corsa per la presidenza degli Stati Uniti. 52 anni, il governatore del New Jersey ha annunciato la sua candidatura nella palestra di una high school di Livingston, dove è cresciuto. Ha detto di volersi battere per “un’America più giusta ed equa”, per “riportare forza e autorità nello Studio Ovale”. “Abbiamo bisogno di una politica che voli alto, ma che dica la verità”, ha aggiunto Christie, che ha promesso di mettere mano al sistema di spesa pubblica che “sta facendo crollare l’intero sistema”.

Christie è uno dei 14 politici repubblicani che hanno già ufficialmente annunciato la loro candidatura (due lo faranno, con ogni probabilità, nelle prossime ore). L’affollamento del campo dei contendenti è già, di per sé, un fatto che testimonia delle difficoltà cui Christie va incontro. Ancor più del numero di candidati, il governatore Christie se la deve però vedere con la sua storia, la sua personalità politica, il suo carattere. Spavaldo, rude, esuberante, acido, capace di fragilità pubbliche e di uscite ben oltre il limite della buona educazione, Christie ha costruito la sua fortuna proprio grazie a questa miscela così eterodossa e insolita per un politico. Questi stessi tratti, del resto, sono anche quelli che ne hanno segnato il declino.

Nel suo primo mandato da governatore del New Jersey, Christie è stato uno dei politici più popolari. Repubblicano in un Stato tradizionalmente democratico, Christie si è fatto benvolere per la retorica, sempre efficace in America, del figlio della piccola borghesia che si è fatto strada; per la capacità di parlare con sincerità del suo peso, dei suoi genitori, del suo matrimonio; per la promessa di rimettere a posto le finanze barcollanti dello Stato; per il suo profilo da repubblicano moderato, che gli ha fatto abbassare le tasse sulle proprietà dei più ricchi ma anche avviare un programma per finanziare il college dei figli degli immigrati illegali; per il carisma che ha mostrato in centinaia di town hall meeting, la forma di rapporto con gli elettori che preferisce, quella caratterizzata da un dialogo fitto e informale.

Nel 2008, e poi ancora nel 2012, furono molti i repubblicani che implorarono Christie di candidarsi alla presidenza. Con la sua personalità, la sua esperienza di governatore, la sua conoscenza della macchina del partito, sembrava l’unico in grado di tenere testa a Barack Obama – molto di più, pensavano in molti, di due candidati piuttosto sbiaditi come John McCain e Mitt Romney. Christie tergiversò per un po’, poi preferì rimandare. Ciò non toglie che fu il suo l’intervento più atteso, applaudito, seguito, alla Convention repubblicana del 2012. L’apparizione, allora, sembrò confermare quello che gran parte del popolo repubblicano della Convention sapeva o auspicava. E cioè che, nel 2016, sarebbe stata la volta di Chris Christie.

Ci siamo quasi, alle presidenziali del 2016, e il paesaggio è completamente cambiato. Il 55% degli elettori repubblicani (dati NBC/Wall Street Journal) dice di non prevedere di votare Christie alle primarie. Peggio di così fa solo l’ex-impreditore diventato personaggio di reality Donald Trump. L’immagine di efficiente riformatore della politica del New Jersey si è andata intanto dissolvendo. Il sistema delle pensioni è in crisi, l’occupazione non cresce, il pareggio di bilancio è una chimera. Una serie di scandali hanno danneggiato la statura morale di Christie. Due suoi collaboratori sono stati accusati di aver chiuso il Washington Bridge e creato disordini e ingorghi soltanto per nuocere a un sindaco che non aveva appoggiato la rielezione a governatore di Christie. Anche il giudizio sulla sua personalità è cambiato. L’irruenza è stata spesso vista come prepotenza; la ricchezza sfaccettata del carattere è diventata instabilità. i suoi
rapporti con i giornalisti, che lui definisce “voi gente”, sono ai minimi storici. In un momento di furia, durante un incontro pubblico, Christie è arrivato a sbatter fuori della sala un veterano che lo contestava.

Nonostante questo, nonostante tutti i limiti e gli ostacoli, Chris Christie si presenta. Chi lo conosce spiega che l’uomo è di quelli che non si tirano indietro di fronte alle sfide. Rispetto a tutti gli altri candidati repubblicani più accreditati, Christie è in difficoltà. Non ha i soldi e l’appoggio dell’establishment come Jeb Bush; non è il beniamino dei conservatori religiosi, che costituiscono il cuore degli elettori repubblicani alle primarie, come Scott Walker; gli manca l’allure intellettuale ed eterodossa di Rand Paul; non è il portavoce dei nuovi americani, come Marco Rubio. Soprattutto, a Christie mancano i soldi, che sono poi quelli che fanno girare le primarie. Jeb Bush ha, sinora, raccolto 100 milioni di dollari in finanziamenti elettorali. Se tutto va bene, prevedono i collaboratori, Christie raccoglierà entro la fine dell’anno una somma tra i 20 e i 30 milioni di dollari.

Perché si presenta, allora? Sicuramente per un fatto caratteriale, per la passione e la voglia di non darsi per vinto. Ma soprattutto perché Christie pensa davvero di poter vincere. Dato per perso l’Iowa, il primo Stato a votare per le primarie e quello con una forte presenza di conservatori religiosi, Christie si concentra sul New Hampshire, il secondo Stato a votare, un’area del nord-est con un’antica tradizione di town hall meeting e una predilezione per candidati repubblicani moderati ma eterodossi. Vinto il New Hampshire, è il ragionamento di Christie, dovrebbe iniziare un effetto a catena, una ricaduta in termini di voti e di finanziamenti. Si tratta di una scommessa difficile, in linea con storia e carattere di questo politico. Se gli va bene, Christie acchiappa la candidatura. Se gli va male, potrebbe fare la fine di Rudy Giuliani, un altro repubblicano moderato del nord-est, ricco di carisma e belle promesse; finito, dopo la fallita candidatura presidenziale del 2008, a fare la caricatura folle di se stesso nel gran circo dei talk show televisivi.

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