Piove a dirotto, son passate da un po’ le fatidiche cinque in punto della sera. L’asfalto bagnato di Jesolo tradisce il Girum 2015. Cadono Alberto Contador e Richie Porte. Il primo perde la maglia rosa. Il secondo, la pazienza. Contador passa l’insegna del comando a Fabio Aru che diventa il primo sardo della storia ciclistica italiana ad indossare la maglia rosa. Porte, invece, sprofonda in classifica e in malinconia.

La caduta avviene a duecento metri dalla neutralizzazione dei -3 chilometri dal traguardo, mentre le squadre dei velocisti si apprestavano alla sfida dell’ultimo metro. Dopo tanti tentativi andati a vuoto, stavolta Sasha Modolo ce l’ha fatta e vince davanti a Giacomo Nizzolo. La Lampre di Modolo e, non dimentichiamolo, dell’amico etiope Tsgabu Gebremaryam Grmay, è al suo terzo successo. Gli sponsor della squadra, una sfilza, godono.

Diciamo che i ragazzi di Beppe Saronni, oltre che bravi, sanno sfruttare l’arte di essere fortunati. Non altrettanto possono dire alcuni dei corridori che erano partiti con l’aureola dei favoriti. A turno, nessuno escluso, hanno pagato pegno alla malasorte. Che si è abbattuta sul Girum 2015 con un accanimento scientifico, costante, direi quasi indecente. Chiamate l’esorcista! Perché scacci la malefica falce della jella, perché combatta il malocchio che incombe sul plotone, perché affronti madama la sventura che implacabilmente taglieggia i favoriti.

La fortuna, si sa, è cieca, e in bicicletta questo è un rischio permanente. Ma la sfiga è un cecchino che raramente sbaglia colpo, quando si viaggia sulle due ruote: forature, slittamenti pericolosi, colleghi inesperti, discese a tomba aperta, cambiamenti climatici repentini. Il catalogo è assai ricco, più di quello che vantava Don Giovanni. Ogni tappa, infatti, gli agguati del destino ingrato sono tanto vari quanto velenosi. Ci rimette la regolarità della corsa, gli organizzatori sono incavolati neri e non sanno più a che santo votarsi. La caduta collettiva di oggi ha avuto anche il sapore agro della beffa, per quei duecento metri prima dei salvifici tre chilometri finali, la distanza dal traguardo in cui scatta la neutralizzazione in caso di incidenti. Così, quella che sembrava essere la più facile delle tappe, è diventata la più rocambolesca: in assenza di salite, ci ha pensato la pioggia a fare la differenza e a scombussolare la classifica generale. C’est le cyclisme, direbbe il mio amico Philippe Brunel dell’Equipe, bravo giornalista ed autore di alcuni bei libri su questo sport di strada, bello e spesso ingiusto.

Rivediamo il film della caduta. Succede che il canadese Hesjedal, per non toccare il cordolo di sinistra della strada, scarta e aggancia la ruota di Alafaci, mentre stava ripiegando dalle prime posizioni. Il gruppo rollava già sui cinquantacinque, i “treni” dei velocisti avevano innescato le micce dell’esplosivo sprint – mezzo chilometri di rettilineo, un invito a nozze per il mucchio selvaggio dei rush finali. Si scatena l’effetto domino, il plotone è come terremotato, i ciclisti traballano da sinistra a destra, l’ondata spezza in tronconi il gruppo, coi corridori più fortunati che dribblano quelli finiti gambe all’aria, vittime innocenti della sterzata di Hesjedal. Ma sono molti a restare intrappolati. I più illustri? Il déja-vu del cadutismo: Alberto Contador e Richie Porte.

Questione di attimi. E, appunto, di sfortuna. Qualcuno tirerà fuori l’insostenibile leggerezza dello stare in bici, l’alibi dei campioni che avendo la testa e i pensieri già altrove, magari al tappone contro il tempo di domani, da Treviso a Valdobbiadene, non hanno avuto la prontezza di scansare la frustata dei cadenti. Ma è una scusa che non regge. Qui si tratta di pura jella. Prendi Contador. Scivola sull’asfalto, dalla parte della spalla sinistra sublussata a Castiglione della Pescaia. L’impressione è che sia bravo e accorto ad attutire il colpo. Rotola dal lato sano, si rimette in piedi, guardandosi attorno per vedere se c’è gregario. Dietro, il fido Tosatto che è il suo scudiero preferito, è già pronto a consegnargli la bici, Contador l’afferra, scarta un paio di corridori che faticano a rialzarsi, riprende la corsa. Taglia il traguardo con 36 secondi di ritardo. Fatali. Ancora una volta ci ha rimesso le penne Richie Porte: ha aggiunto altri due minuti di ritardo, stavolta non ha nemmeno ripreso l’inseguimento con forza e convinzione, è apparso rassegnato. Non deve aver mai letto Jean Cocteau, che una volta ha scritto: “Come è brutta la felicità che si desidera. Come è bella l’infelicità che si ha”.

Chiamatelo Giro della Rogna, dunque. Oggi, per esempio, che tappa era? La tredicesima. Come certamente saprete, il tredici è sicuramente il numero più temuto e anche quello più amato. La tradizione numerologica dice che se si sommano le cifre che lo compongono si ottiene 4, ossia il numero che identifica il sole, tradizionalmente un elemento benefico. Ma secondo la kabbala, il 13 spezza l’equilibrio del numero che lo precede, ossia il dodici, che rappresenta i mesi dell’anno, gli apostoli di Gesù, le fatiche di Ercole, le stazioni dello Zodiaco. Il tredici era considerato nefasto anche da Omero (lo dice nel quinto canto dell’Iliade) e da Cicerone (l’orazione Pro Caecina). In America è una fobia: non esiste il tredicesimo piano, o la tredicesima fila, o il tredicesimo posto.

Non parliamo del chilometraggio di oggi, da Montecchio Maggiore a Jesolo 147 chilometri. Il 47, nella Smorfia, rappresenta il morto. Nella Smorfia romana, il morto che parla. Nel 1947, fu inventato il micidiale kalashnikhov. Su Wikipedia ho scoperto che 47 è il nome del sicario del videogioco “Hitman”. Diciamo che sarebbe meglio starne alla larga… purtroppo, la sorte è pura anarchia, e questo deve averlo ben capito anche il nostro abissino al Giro, che infatti ha perso altri tre minuti e 25 secondi per colpa del tombolone, arrivando 164°. Resta 76° in classifica, davanti al compagno Mori.

Domani c’è la crono: non ne ha mai affrontata una così lunga, e questo un poco lo spaventa, ma non più di tanto. L’11 febbraio scorso, infatti, ha partecipato alla gara contro il tempo dei campionati continentali africani disputati a Wartburg, in Sudafrica, e l’ha vinta, 48 chilometri di lunghezza percorsi alla rispettabile media di 45,65 chilometri l’ora. Il nostro amico – codice Uci ETH 19910825: sommando le cifre si ottiene 8, numero fortunatissimo secondo i cinesi – ha battuto l’eritreo Daniel Teklehaimanot e al sudafricano Reinard Janse Van Rensburg (nella prova su strada di 161 chilometri Tsgabu si è piazzato quinto). E’ probabile che domani Tsgabu guadagni qualche posizione, in classifica. Almeno, lo spero. E lo spera.

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