Nizza, 2015 (foto © Leonello Bertolucci)

Non stiamo a ripetere la litania che contrappone – ancora e dopo anni – il partito degli “analogici” e quello dei “digitali”, tutti in realtà abitanti del pianeta Fotografia.

Però quando penso al passaggio e ai cambiamenti conseguenti (cambiamenti essenzialmente operativi, che invece una visione non te la regala né te la toglie il digitale…) mi dico che quelli normalmente elencati, sottolineati, enfatizzati, non mi stravolgono affatto. D’accordo, abbiamo perso il negativo, abbiamo perso la sana trepidazione dell’attesa per verificare i risultati, abbiamo perso una quota di artigianalità, un alone di alchimia, una qualche mitologia romantica, ma per contro abbiamo trovato molte cose e nuovi stimoli alla nostra curiosità.
Una cosa, se devo dire, che mi crea qualche nostalgia – e che non è quasi mai citata tra quelle più rimpiante – è… l’umidità. E l’acqua in particolare.

Il processo fotografico, sia in fase di sviluppo dei negativi che in fase di stampa, dentro quella placenta illuminata di rosso chiamata camera oscura, era tutto un mondo di liquidi.
La trasformazione emotivamente più drastica della fotografia digitale è stata, per come la vedo io, il suo asciugarsi.
Ora tutto “a secco”, prima invece i fluidi corporali di un organismo pulsante che letteralmente “dava alla luce”, dopo la gestazione latente, una nuova fotografia.
Un po’ come se, dentro quelle bacinelle allineate, della fotografia ci fosse il sangue, la saliva, il sudore. E poi, e infine, la catarsi: il neonato negativo o la neonata stampa a purificarsi sotto l’acqua che è vita.

Ecco: in tempi di fotografia digitale quello che mi manca sono le mie mani bagnate, gli sciabordii, gli scrosci, e pure gli schizzi, che a volte significavano una camicia da buttare, irrimediabilmente macchiata di fissaggio.

L’acqua, dicevo, atto finale prima di una meritata asciugatura (ah… la smaltatrice, il fornetto, il phon. Il vento caldo dopo la tempesta).
La camera oscura, in ore e nottate al lavoro, produceva strani effetti sulla psiche – un viaggio chimico? – dagli effetti ipnotici e visionari. Tanto che spesso arrivavo a fare una riflessione tra lo scientifico, il filosofico e il paranormale: avete certamente sentito parlare della “memoria dell’acqua”, una teoria che sostiene la possibilità dell’acqua stessa di mantenere un “ricordo”, una sorta di impronta delle sostanze con cui è venuta in contatto; e allora, l’acqua che tante volte ha accarezzato le mie fotografie lavandole, e che poi ha preso la strada dello scarico e del dedalo di tubi sotterranei fino a disperdersi, cosa mi ha portato via? Disciolti in quel gorgo nel lavandino s’inabissavano anche i miei ricordi?

Forse no, al contrario, l’acqua che lavava le foto in quei tempi umidi era una garanzia, il migliore e più sicuro degli archivi fotografici, un archivio grande quanto il mondo. Se davvero l’acqua ha memoria, quelle foto non si cancelleranno mai più giacché in natura, come sappiamo, nulla si distrugge.

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