Lo Stato Islamico è diventato un business, come lo divenne il terrorismo all’indomani dell’11 settembre. Dai giornalisti ai professori, dagli esperti alle think tank specializzate nel processo di radicalizzazione, persino il comune cittadino, grazie ai social media, esprime le proprie opinioni e così facendo promuove se stesso o attacca chi la pensa diversamente. E’ questo un bene? Lo sapremo tra 50 anni quando i posteri scriveranno di come abbiamo gestito questo periodo buio della storia della nostra civiltà.

Ma se fermiamo per un momento tutta questa ‘caciara’ opinionista e cerchiamo di capire cosa succede usando non gli strumenti del presente, la tecnologia informatica che mette tutti a contatto con gli altri, ma quelli del passato, l’analisi del male, le cose cambiano. La storia europea ci offre un esempio di comportamento malvagio e disumano recente, la soppressione a livello industriale degli ebrei, l’olocausto. Anche Hitler faceva pulizia etnica, sopprimeva gli omossessuali e distruggeva scientificamente la diversità. Spogliava dell’umanità il diverso. E lo faceva con un esercito ben addestrato e con il consenso della popolazione. Ce lo siamo dimenticato? Eppure ogni anno celebriamo il giorno della memoria per ricordare gli orrori di cui questo continente è stato capace.

Il Papa, unica luce in questo buio esistenziale nel quale siamo piombati, ha il coraggio di mettere in dubbio la consuetudine ideologica-religiosa della nostra normalità. Quando siamo schiavi dell’autoreferenzialità finiamo per coltivare una ‘spiritualità di etichetta’: ‘Io sono Cl’; e cadiamo nelle mille trappole che ci offre il compiacimento autoreferenziale, quel guardarci allo specchio che ci porta a disorientarci e a trasformarci in meri impresari di una Ong”. Queste le sue parole. 

In fondo anche i giovani mussulmani che vengono sedotti dal messaggio dello Stato Islamico sono schiavi di un’ideologia totalmente autoreferenziale che gli fa credere di appartenere alla normalità di un mondo monolitico, dove tutti sono uguali agli altri. La storia di Jihadi John, un ragazzino che non riusciva a trovare una sua collocazione nell’Inghilterra contemporanea, vessato dai servizi segreti che lo volevano trasformare in una spia, assomiglia molto a quella di Abu Mussaq al Zarqawi, il proletario giordano, bulletto di quartiere che in prigione scopre la ‘normalità’ del salafismo radicale. Ed anche quella delle promesse spose dei guerrieri jihadisti, che sognano un marito con la sciabola alla cintura ed una famiglia a Raqqa, rientra in questa ‘normalità’. Accettare la diversità è quasi diventato impossibile in un mondo sovrappopolato dove per farsi spazio bisogna lavorare di gomito costantemente.

La seduzione dello Stato Islamico poggia sul concetto di appartenenza e di normalità per chi non ce la fa più a sgomitare e cerca nei suoi simili, i deboli, un gruppo al quale appartenere. La celebrazione dell’individualismo che lo smembramento del socialismo e la vittoria del neo-liberismo ci ha regalato ha prodotto anche questo, la solitudine esistenziale di chi non ha i numeri per emergere dalla massa. Questo sicuramente non lo abbiamo letto da nessuna parte.

Un incontro casuale su un treno che da Amsterdam mi portava a Parigi qualche settimana fa ben illustra questo concetto. Nel vagone ristoro c’era un ragazzo di vent’anni che leggeva la versione olandese del mio libro sull’ Isis.

Mi sono avvicinata ed abbiamo iniziato a chiacchierare. Era iracheno, di Baghdad, ed era sunnita. La famiglia si era trasferita ad Amsterdam quando aveva 12 anni perché sfollati, la loro casa è stata requisita da una delle tante milizie sciite ed hanno avuto la fortuna di trovare asilo in Olanda. Una storia come tante altre, simile a quella di mia suocera, ebrea fuggita da Berlino nel 1938 a soli 14 anni con la madre grazie ad uno sponsor di New York. Anche per loro l’impatto con il nuovo paese è stato traumatico, il padre del ragazzo era professore di chimica adesso fa il tassista e lui, laureatosi in ingegneria non trova lavoro ed è stanco di aiutare il padre con il tassi. Anche la nonna di mio marito è finita a fare la cameriera in un albergo mentre a Berlino lavorava in borsa. Ma nel 1940 per i giovani ebrei in America era possibile costruirsi un futuro, nell’Europa contemporanea per i giovani mussulmani diventa sempre più difficile, quasi impossibile, farlo.

Il ragazzo iracheno mi ha raccontato di alcuni suoi amici che un paio d’anni fa hanno deciso di andare in Siria a combattere, chissà forse qualcuno è finito anche nelle file dell’Isis o di al Nusra, lui non lo sa o almeno così mi ha detto. Ma capisce l’attrazione, la seduzione che l’idea di andarsene esercita sui suoi coetanei. Una normalità frutto della scelta comune e della vita da sogno prospettata dai reclutatori dello Stato islamico. E’ un’illusione, gli ho detto. E lui mi ha risposto che è vero ma qual è l’alternativa?

Nel 1961 Hanna Arendt descrisse la banalità del male, attribuendo ai nazisti un comportamento da automa dettato da codici di normalità che li hanno portati a commettere un genocidio. La tesi fu duramente criticata ed oggi viene accettata come una delle interpretazioni più autentiche della tragedia dell’olocausto.

La banalità del male è ancora oggi la chiave di lettura delle barbarie perpetrate dallo Stato Islamico. A prescindere dalle esecuzioni degli ostaggi, che senso ha distruggere monumenti di un’era antecedente alla nascita del profeta? Domandiamoci questo, come possono le statue Assiro babilonesi essere idoli dal momento che chi le ha costruite non conosceva la parola del profeta? Fare tabula rasa del passato aiuta la costruzione della normalità del presente, è per questo che Hitler voleva sterminare gli ebrei tedeschi, si stratta di uno sfoggio di debolezza da parte di chi non ha più il coraggio di pensare e di scegliere, individui alienati da una società che secondo loro non li vuole.

Le radici della radicalizzazione sono sempre le stesse ed affondano nel nostro subconscio. Uccidere e distruggere sono atti contro natura ma se questa si rivela nemica allora è facile costruirne un’altra, monolitica ad immagine e somiglianza della propria debolezza.

Il ragazzo iracheno mi ha dato ragione, la seduzione dello Stato Islamico altro non è che la normalità dei deboli che nella violenza si illudono di essere forti. E più l’esercito dei deboli cresce, più questa normalità diventa realtà. In fondo questa era anche la seduzione del nazismo.

Ci siamo salutati quando il treno entrava a Bruxelles. Mi ha chiesto di firmargli il libro, ho scritto “in bocca al lupo” ne abbiamo tutti bisogno.

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