La posta in gioco per lui – che pure fu filologo e letterato finissimo – non era mai solo letteraria. Pena l’irrilevanza. Anche quando era la letteratura al centro dell’attenzione, in realtà essa doveva fungere da ripetitore, da tramite, da passaggio verso la realtà e verso le ideologie che tentavano di comprenderla e di piegarla ai loro interessi.

A partire dal linguaggio, certo. Ma senza che il linguaggio in sé fosse mai lo scopo, piuttosto lo strumento. Tanto da far sì che, ogni qualvolta si trattasse di problema, o conflitto formale, fosse chiaro a tutti che esso era – nondimeno – integralmente politico. È stato tutto, tranne che un poeta ‘letterato’ – uno di quelli che vengono buoni per tutte le stagioni – Edoardo Sanguineti.

È stato un poeta impegnato e sperimentale, un ostico romanziere d’avanguardia, un filologo, uno storico e un critico della letteratura, un traduttore – a volte impareggiabile – da lingue antiche e moderne, ha scritto per il teatro, per il cinema, per la televisione, per la musica. Questa pare essere una delle ragioni dell’oblio cui sembra condannato da tanti (e a sinistra da tantissimi, da troppi), assai più a loro agio con l’elegia conservatrice di Pasolini, o con quella, più pop ed erotico-ammiccante della Merini.

Pare proprio che il ‘poetese’, come lo chiamava lui, abbia vinto la partita, assai più adeguato delle rischiose scommesse sanguinetiane ad essere merce per lo scambio globale. Troppo valore d’uso, nella poesia di Sanguineti, perché essa potesse acquistare un valore di scambio all’altezza della bulimia del mainstream. Per sua fortuna, verrebbe da dire.

Ma ricordare Sanguineti è invece certamente fondamentale, perché intorno alla sua scrittura ruotano molte delle questioni fondamentali del linguaggio e dei suoi usi artistici, come molte delle svolte fondamentali del pensiero sull’arte e sulla letteratura e non solo su di esse.

Non a caso, da sempre Sanguineti si è speso in collaborazioni interartistiche, con musicisti (Berio, Liberovici, Scodanibbio), registi teatrali (Ronconi), pittori (Baj) e sempre da questa collaborazione sono nate svolte, riflessioni, graffi alla patina omogenea che ricopre tanti prodotti del fare contemporaneo: si pensi, uno per tutti, al suo Rap, una riflessione sulla ‘percussione della lingua poetica’, sulla sua ‘musicalità’ che, di fatto, spiazzava tanto conformismo neo-orfico di fine secolo.

Ben venga, dunque, l’iniziativa del compositore Andrea Liberovici di ricordarlo il 9 dicembre, nel giorno della sua nascita, con questa Sanguineti Parade che porterà a Genova, a 4 anni dalla sua scomparsa, tanti studiosi della sua opera, anche perché sarà l’occasione per poter vedere un bellissimo cortometraggio realizzato proprio da Sanguineti e Liberovici e dedicato al cinema e al suo modo di raccontare il ‘lavoro’ , Work in regress – catena di montaggi.

Dalla fabbrica al cinema, poi dal cinema alla musica e alla letteratura, il montaggio è parola chiave della contemporaneità, mentre il lavoro, che è stato l’ambito umano che per primo ne è stato coinvolto, regredisce, giorno dopo giorno: da diritto e caratteristica antropologica fondamentale, diviene un privilegio per pochi, che si dovrebbe essere disposti a fare anche senza mercede alcuna. Dalla subalternità, alla condizione servile, senza tappe intermedie.

«Il mobbing, è la forma moderna del lavoro, quella che distrugge la coscienza di classe», chiosa Sanguineti in Work in regress. Il corto, che sarà liberamente visibile in rete e che qui in anteprima presentiamo, è per l’appunto un montaggio di frammenti di diverse pellicole, le musiche di Liberovici riscrivono il soundtrack delle citazioni filmiche, le sottopongono a una torsione a volte brutale, con un’acrobazia formale che le costringe a significati nuovi.

Le parole di Sanguineti invece stendono un reticolo analitico, un pattern riflessivo che dialoga con l’analogia di suoni e immagini. E dal loro cortocircuito nasce – ogni volta – una scintilla crudele di senso. E come sempre, a scavare nella miniera linguistica e poetica di Sanguineti – qui proposta sotto forma di una serie di “cartelli” che integrano immagini e suoni alla maniera (forse antifrastica) delle pellicole mute – vengono fuori diamanti di riflessione critica, come quella contenuta nel cartello 12 che recita: «Oggi una generazione di uomini comprende non si sa quante generazioni di macchine».

Esatto, probabilmente il problema – o almeno buona parte di esso – è proprio lì, nel mutamento del rapporto tra ‘generazioni di macchine’ e ‘generazioni umane’. Prima che mutasse una ‘generazione di macchine’, per moltissimo tempo è occorso moltissimo tempo: generazioni e generazioni umane hanno assorbito il colpo, sono ‘mutate’, ma con lentezza.

Oggi, in quest’eterno presente che viene dopo il moderno, il postmoderno e l’ipermoderno, che viene prima e in luogo di qualsiasi immaginabile futuro, non è più così: ad ogni generazione umana tocca avere a che fare con tante, troppe ‘generazioni di macchine’. E le conseguenze sono devastanti. Disumane. Questo esempio valga come argomentazione per dire che noi potremo anche tentare di ignorare Sanguineti, la sua opera, i suoi dubbi, le sue intuizioni, ma non potremo certo ignorare la realtà.

Se non lo faremo noi, sarà essa stessa, vedrete, a ricordarci presto di lui. Perché non è mai solo un problema di linguaggio, ma senza linguaggio non potremo certo mutare la realtà.

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