Anche gli italiani fanno land grabbing. Dal 2007 in avanti hanno preso parte alla grande corsa alla terra che secondo la Banca Mondiale ha coinvolto negli ultimi 3-5 anni tra i 50 e gli 80 milioni di ettari soprattutto nel Sud est asiatico, in Africa e in America Latina. Le multinazionali si prendono enormi appezzamenti con prezzi di affitto che arrivano al massimo a 3 dollari all’anno per ogni ettaro, per investire in biocombustibili o in agricoltura. Ma i risultati, spesso, non si vedono. Il Senegal è uno dei Paesi dove gli italiani hanno cercato fortuna.

Ci ha provato il Gruppo Tozzi renewable, con 50 mila ettari nella regione di Tambacounda, nel cuore del Paese, a 460 chilometri dalla capitale Dakar. È stato fermato poi nel 2011 dalla Guardia forestale per aver violato le norme sul disboscamento: voleva coltivare dove le leggi nazionali non lo consentivano. A Louga, uno dei distretti rurali del Senegal, 50mila ettari sono ancora in mano alla Nuove iniziative industriali di Luciano Orlandi e della sua controllata senegalese Senergie SA. Tutti terreni coltivati a jatropha, una pianta dal quale si ricava un olio usato come biocombustibile. Tra il 2007 e il 2008, gli anni del boom della jatrhopa, l’Italia è stata il primo investitore in Senegal, con 56,7 milioni di euro. Non è un caso che in quegli anni siano maturati i più importanti incentivi per il settore bioenergetico: secondo le stime della ricerca “Le politiche per la promozione dell’energia rinnovabile” redatta dall’INEA (Istituto nazionale di economia agraria), tra il 2007 e il 2010 le agevolazioni fiscali di cui sono stati destinatari i produttori di energia bio sono costate al nostro erario 116,4 milioni di euro.

Il caso più discusso di land grabbing italiano è quello della Senhuile-Sénéthanol, a cui lo Stato senegalese ha regalato 26 mila ettari in una ex riserva naturale a Nord del Paese, nella regione dello Ndiael. Non paga nulla per occuparli. La società è al 51% controllata dall’italiana Tampieri e al 49% è di proprietà di un gruppo senegalese, Sénéthanol, appunto, nata con lo scopo iniziale di produrre biocombustibile. Questa società ha un assetto nebuloso: è controllata per la maggior parte da una società offshore, Abe international. Il vecchio direttore esecutivo, l’imprenditore israelo-brasiliano Benjiamin Dummai, è stato arrestato a Dakar lo scorso maggio con l’accusa di aver rubato 200 mila dollari di proprietà di Senhuile. “L’errore è stato stare troppo lontano dal Senegal”, dichiara Davide Tampieri, il neo direttore. Finora la società ha già investito 15 milioni di euro per coltivare riso, arachidi, mais e forse semi di girasole. Mai pensato ai biocombustibili, giurano, e sui risultati che stentano ad arrivare si giustificano così: “È una terra difficile da lavorare”. Tampieri è sicuro di rientrare nell’investimento vendendo i beni agricoli al mercato interno. A giugno, però, di risultati ancora se ne vedevano pochi. La ong internazionale Action Aid ha condotto una campagna contro il land grabbing dell’azienda: secondo Action Aid, la Senhuile non ha cercato il confronto con la popolazione, tanto che un collettivo di 37 villaggi ha firmato un documento per chiedere la chiusura. A fine giugno società e ong hanno fatto un incontro in cui Action Aid ha chiesto maggiori informazioni sul confronto con i villaggi e Tampieri si è detta disponibile a collaborare. Il progetto, quindi, prosegue, con scopi agricoli.

Il caso di Beud Dieng

Il Gruppo Vescovini in Senegal ci è arrivato nel 2007 e a giugno 2014 la sua avventura si è definitivamente chiusa. L’azienda voleva coltivare la jatropha e ha investito tra i 300 e i 450mila euro, per coltivarla in una superficie che avrebbe dovuto raggiungere gli 800 ettari. Quando Vescovini ha cominciato, sulla carta pareva che la jatropha fosse una pianta fenomenale: poteva crescere anche in zone marginali, non agricole, doveva essere uno strumento per produrre bionergia in Senegal, da vendere poi in Italia per alimentare motori diesel di camion e mezzi pesanti. Un “petrolio biologico” che avrebbe creato anche nuovi posti di lavoro nel villaggio di Beud Dieng, nella regione di Thiés. Invece l’impresa dell’azienda SBE Senegal, la controllata del Gruppo Vescovini con sede a Dakar, è stata un flop e 70 ettari di terreno sono rimasti ostaggio della burocrazia senegalese per sette anni. 

“Non c’è mai stato nemmeno un raccolto. Il terreno non è adatto”, spiega Souleyman Diaw, consulente dell’associazione italo-senegalese Sunugal e di altre ong locali che difendono l‘accesso alla terra. Lo dice a sette anni di distanza dal lancio del progetto, proprio mentre si sta scrivendo la parola fine a questa vicenda: le autorità locali hanno riconsegnato il 15 giugno scorso la concessione d’uso dei terreni alla comunità di agricoltori. Diaw è tra i responsabili di una cooperativa di 110 donne che coltivano le terre attorno al centro abitato. E qui, su questi stessi terreni, doveva sorgere il progetto di SBE Senegal.

In tutto avrebbe occupato 800 ettari: la prima sperimentazione del 2007 è stata di 10 ettari, dopo due anni di 60. E lì si è fermata. Già nel 2010 l’azienda aveva capito che il progetto era un fallimento: “Avevamo grosse difficoltà per la parte agricola – ricorda Alessandro Vescovini, responsabile per conto del gruppo -. Nel 2010 abbiamo rimandato la concessione alla cooperativa di agricoltori”. “Non volevamo approfittare degli incentivi – prosegue l’imprenditore -. Quando il progetto non ha funzionato abbiamo donato alla comunità il pozzo da 150mila euro”. Vescovini però non spiega quale fosse il piano finanziario dell’azienda e i tempi previsti per rientrare dall’investimento.

Una comunità spaccata

Funzionerà o non funzionerà la jatropha? La domanda ha spaccato fin dall’inizio la comunità di Beud. Per alcuni (la maggior parte all’inizio) era una buona opportunità per creare posti di lavoro. Per altri, una fregatura: non si poteva cedere parte dei propri terreni per produrre energia. Sarebbe stata, dicono, una forma di furto del territorio, di land grabbing: “Promettevano mari e monti, ma alla fine non hanno realizzato nulla”, commenta Modou Gueye, presidente dell’associazione italo-senegalese Sunugal, nativo di Beud Dieng.

Nulla è andato secondo quanto previsto dallo studio di fattibilità realizzato dalla società di consulenza Agroils. Il presidente Giovanni Vescovini dice di non aver più seguito le sorti di SBE Senegal dalla fase di avvio. E gli errori sono perdonabili: “La jatropha è ancora un settore giovane”. Le sperimentazioni degli inizi, ammette Vescovini, erano sostenute più dagli incentivi che da una reale possibilità di fare business: “Ora c’è più consapevolezza”. Ma gli effetti sulle comunità rischiano di essere gli stessi anche in futuro.

“Il più grande speculatore? Lo Stato”

Su Land matrix, il più grande portale che monitora sulle transazioni di terra, tutti e 14 i contratti in corso tra società straniere e Senegal hanno scopo agricolo. Non era così fino a qualche anno fa: secondo i dati raccolti dal Copagen (la Coalizione per la protezione dell’eredità genetica) nel 2013, tra progetti i corso 11 erano a scopo agricolo, 14 per produrre bioenergia. Con gli anni, da quando il sogno jatropha s’è rivelato un incubo, è cambiata la destinazione delle terre. Resta da capire se il cibo resterà nel mercato interno oppure sarà destinato all’estero. In Senegal sono 844 mila gli ettari in mano a privati stranieri. Chi si butta nel campo agricolo, spesso rientra nel piano Goana, la Grande offensiva agricola per il cibo e l’abbondanza, un progetto lanciato nel 2008 con 524 milioni di euro. “Il più grande speculatore fondiario è lo Stato senegalese – ragiona il magistrato della Corte dei conti Mamadou Leye – ha cominciato il programma senza averne i mezzi, dando così la possibilità a chi aveva denaro di prendersi la terra”. E gli italiani partecipano alla spartizione della torta.

di Lorenzo Bagnoli e Germana Lavagna 

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