Le politiche di austerità, attuate simultaneamente in molti paesi dell’Eurozona, non sono riuscite nemmeno a ridurre il debito pubblico. La pro-ciclicità insita nelle regole europee è potenzialmente molto pericolosa: basta vedere i danni di lungo periodo che la grande recessione ha prodotto.
di Andrea Boitani e Lucio Landi (Fonte: lavoce.info

Gli effetti indesiderati dell’austerità

Tra le tante possibili misure dell’austerità ne utilizzeremo qui due molto semplici e dirette: la consistenza dell’avanzo primario (depurato dagli effetti dovuti al ciclo) e la variazione del saldo primario, sempre al netto del ciclo. La prima ci dice quale sia il contributo pubblico diretto discrezionale (cioè non dovuto al semplice operare degli stabilizzatori automatici) alla domanda aggregata (quello indiretto e, in genere, molto inferiore viene dalla eventuale spesa degli interessi percepiti dai detentori di titoli del debito pubblico). La seconda è un indicatore dell’atteggiamento di politica fiscale (fiscal stance): se la variazione è positiva, si è in presenza di un atteggiamento restrittivo, se la variazione è negativa, si è in presenza di un atteggiamento espansivo. 

Guardando dunque al saldo primario è possibile vedere come, a partire dalla fine del 2010, la finanza pubblica dell’area euro, come quella Usa, assume un atteggiamento restrittivo, con significativi miglioramenti del saldo primario aggiustato per il ciclo (figura 1). In un simile quadro si può anche notare come l’area euro abbia avuto sempre un avanzo primario superiore a quello degli Stati Uniti e come la posizione dell’Italia sia stabilmente “migliore” di quella aggregata dell’Eurozona, con un permanente attivo primario, che arriva a superare il 4 per cento del Pil nel 2012 e nel 2013. Non solo la politica fiscale americana è stata nel complesso più espansiva di quella europea, ma lo è stata di più quando più serviva, cioè immediatamente dopo lo scoppio della crisi finanziaria e si è accompagnata a una altrettanto tempestiva e massiccia politica monetaria espansiva e a una azione di ricapitalizzazione delle banche

Se vogliamo vedere meglio gli effetti dell’austerità, conviene guardare alla correlazione tra variazione del saldo primario e variazione del tasso di disoccupazione. Ci accorgiamo così che, escludendo la Grecia (per evitare che influenzi troppo i risultati con il suo ingente assestamento di bilancio e il suo enorme aumento di disoccupazione), i paesi dell’area euro che hanno fatto maggiori aggiustamenti di bilancio primario (al netto delle variazioni cicliche) sono anche quelli che hanno visto crescere di più il tasso di disoccupazione (figura 2). Dato un trend comune di crescita della disoccupazione, per ogni punto in più di “miglioramento” del saldo primario in media si è registrato un aumento di 0,67 punti del tasso di disoccupazione. E un R2=0,59 ci dice che la retta di regressione spiega quasi il 60 per cento della variabilità dei dati riscontrata. Ovvero che la correlazione tra più austerità e più disoccupazione è abbastanza elevata. In Germania, dove la variazione del saldo primario è stata nulla, il tasso di disoccupazione si è ridotto di un punto.

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Scende lo spread, aumenta il debito

La figura 3 mostra come i livelli degli spread tra tassi sui titoli pubblici a dieci anni dei vari paesi dell’area euro e tassi sui bund (tedeschi) decennali alla fine del 2010 spieghi oltre il 50 per cento dell’intensità del consolidamento fiscale come misurato dalla variazione del bilancio primario aggiustato per il ciclo. Il che conferma il ruolo significativo che le difficoltà di finanziamento del debito pubblico hanno avuto nel determinare l’atteggiamento di politica fiscale dei paesi dell’area euro. D’altro canto, le misure di austerità messe in campo hanno contribuito solo in misura relativamente ridotta alla riduzione degli spread (figura 4). Al contrario, il loro calo appare molto più la conseguenza della credibilità dell’annuncio fatto da Mario Draghi nel luglio 2012 a Londra di voler salvare l’euro “whatever it takes” e delle prospettate (ancorché mai attuate) operazioni Outright Monetary Transactions (Omt) da parte della Bce. Infatti, (i) gli spread si riducono di più nei paesi in cui erano più alti a giugno 2012, suggerendo che il precedente rialzo era stato in buona misura determinato dai sentimenti di panico che si erano diffusi sui mercati (figura 5); (ii) gli spread si riducono nonostante che i “fondamentali” continuino a peggiorare, in particolare il rapporto debito/Pil che aumenta in tutti i paesi della “periferia”. 

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Dalla figura 6 si può vedere come il rapporto debito/Pil sia aumentato in tutti i paesi dell’Eurozona che hanno adottato misure di consolidamento fiscale e sia maggiore dove sono state più intense (R2=0,63).
L’insieme di questi numeri sembra confutare definitivamente l’argomento di coloro che affermano che l’austerità ha funzionato poco perché non se n’è fatta abbastanza, dal momento che più se ne è fatta, peggio sono andate le cose, sotto il profilo della disoccupazione e sotto il profilo del debito pubblico. Evidentemente, nella concreta situazione in cui si sono venuti a trovare i paesi dell’Eurozona (tassi di interesse nominali vicini allo zero, inflazione ben al di sotto del 2 per cento e simultaneità non coordinata delle politiche di consolidamento del bilancio in tutti i paesi), i moltiplicatori fiscali si sono rivelati molto più alti e molto più tradizionalmente keynesiani di quanto la Commissione e i suoi persuasori accademici pensassero

E il potenziale si riduce

Il problema più grave è che lo shock negativo costituito dalla crisi finanziaria e dalle successive politiche di consolidamento fiscale ha avuto pesanti effetti sul Pil potenziale e anche sul suo tasso di crescita: si è messo in atto un forte effetto di isteresi, con distruzione di capacità produttiva.Confrontando le tendenze pre-crisi e post-crisi per i paesi Ocse, Laurence Ball ha stimato che la perdita di Pil potenziale ha riguardato quasi tutti i paesi (le eccezioni sono Svizzera, Australia e Nuova Zelanda), ma l’epicentro di questa catastrofe sono stati i paesi europei che hanno sperimentato le più intense politiche di consolidamento fiscale (i Piigs e il Regno Unito, oltre alla Finlandia). Per l’Italia, il tasso di crescita potenziale si è ridotto dal già basso 1,34 per cento nel periodo pre-crisi a un miserrimo 0,11 per cento stimato per il biennio 2014-2015.

Proprio perché il Pil potenziale italiano si è ridotto, l’ampiezza del’output gap negativo (cioè la differenza percentuale tra Pil effettivo e Pil potenziale) dovrebbe ridursi di 1,30 punti tra 2013 e 2015, in linea con la Spagna. Ancora maggiore risulterebbe la riduzione dell’output gap in Portogallo, Irlanda e Grecia, a seguito della perdita di Pil potenziale. Ma proprio questo fatto incide sul calcolo del deficit aggiustato per il ciclo (saldo strutturale), poiché la fase negativa del ciclo appare meno intensa di quanto sia nella realtà (il Pil effettivo è più vicino al nuovo, ridotto potenziale) e quindi il deficit aggiustato risulta maggiore, anche se quello nominale è invariato. Ne segue la necessità di ulteriori manovre di aggiustamento per rientrare nei “parametri” fissati dalle regole europee (incentrate sui saldi strutturali: si veda i passati interventi sul tema 27.06.201404.07.1422.07.14).

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Che fare?

È evidente che regole di questo genere non possono tirare fuori l’Eurozona dalla recessione. Come ha detto Michael Spence, “l’Europa, teoricamente una grande potenza mondiale, non può più farsi del male da se stessa”; di fronte alla debolezza della domanda globale e ai segnali di recessione e deflazione che coinvolgono ormai anche Francia e Germania “non ha più senso il gioco di muscoli imperniato su parametri irrealistici, fissati quando la situazione era assai diversa”. Inoltre, “la mancanza di riforme strutturali non può spiegare il fatto inedito e recente di uno scollamento dell’andamento ciclico tra noi e gli Stati Uniti, come non può spiegare la debolezza diffusa dell’Unione che tocca anche il paese che ne è motore: la Germania. Questo non significa negare l’importanza delle riforme, ma suggerisce che un difetto su questo fronte non può essere la causa di tutti i nostri mali”.

Bisogna accettare, una buona volta, di trovarsi di fronte a un’enorme e prolungata crisi di domanda aggregata; che la politica monetaria (con tassi di interesse nulli e pendente la spada di Damocle della corte costituzionale tedesca) sta esaurendo le armi a sua disposizione; che c’è bisogno di una politica fiscale federale o quantomeno un coordinamento espansivo delle politiche fiscali nazionali; che bisogna smetterla coi soliti sospetti e pensare che questa svolta non deve servire ad “aiutare” per l’ennesima volta gli irriformabili paesi del Sud o per consentire loro di “derogare” regole oscure e parametri discutibili, ma per consentire una ripresa di tutta l’Unione. Infine, bisogna accettare che l’attuazione delle riforme “dal lato dell’offerta” nei singoli paesi potrà mettere la ripresa su un sentiero di prolungata sostenibilità, ma non può certo innescarla adesso, cioè quando serve.

 

Bio dell’autore

Andrea Boitani – Ha ottenuto l’M.Phil. alla Università di Cambridge, dove ha anche svolto attività di insegnamento. Attualmente, insegna Economia politica all’Università Cattolica di Milano ed Economia della regolazione al Master in Economia pubblica e al Dottorato in Economia e finanza delle amministrazioni pubbliche, presso la stessa università. Ha fatto parte della Commissione Tecnica per la spesa pubblica presso il Ministero del Tesoro dal 1993 fino al suo scioglimento, nel 2003. E’ stato consigliere economico del Ministro dei Trasporti e componente delle commissioni incaricate di predisporre il Piano Generale dei Trasporti (1999-2001) e il Piano Nazionale della Logistica (2004-2005). E’ autore di varie pubblicazioni nei campi della Macroeconomia e dell’economia della regolazione e dei trasporti. Redattore de lavoce.info. 
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Lucio Landi – Laureato presso l’Università Cattolica di Milano, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in economia politica presso l’Università di Pavia. Ha lavorato presso il Ministero dell’Economia, il Fondo Monetario Internazionale e il Servizio Bilancio del Senato della Repubblica. Attualmente è membro del Consiglio degli Esperti del Tesoro e tiene lezioni e corsi presso varie istituzioni e università. Si occupa di questioni internazionali, europee in particolare, di finanza pubblica e di spending review. 
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