“La soluzione è semplice: espansione. Stimolare l’economia tagliando le imposte e finanziandosi col supporto della Banca centrale europea”. Senza, “fra vent’anni i libri di storia parleranno di decenni perduti”. Guido Tabellini, economista, ex rettore della Bocconi, è l’esponente più autorevole della cabina di regia economica che Matteo Renzi vorrebbe a Palazzo Chigi. La sua ricetta, in generale, ricalca il “modello tedesco”: riforme del lavoro che tengano sotto controllo i salari e favoriscano le esportazioni.

Eppure la Germania, che finora ha attuato queste politiche in maniera aggressiva, sta rallentando.
Colpa delle tensioni ucraine, ma soprattutto delle politiche sbagliate dell’area euro.

Quelle che, di fatto, decide proprio la Germania.
Non solo lei. Ma sono ottuse: in queste condizioni i vincoli di bilancio (come il famoso 3% del deficit/Pil) strozzano i paesi del Sud Europa.

L’Italia si deve quindi impegnare per cambiarli?
Non lo accetteranno mai. Chiariamo una cosa: quei vincoli, come la camicia di forza imposta alla Bce – che deve limitarsi a tenere sotto controllo l’inflazione – erano negli accordi. La Germania è entrata nell’euro a queste condizioni di favore. Se fossero state diverse, non lo avrebbe fatto.

Adesso, però, sembra accusare il colpo.
Le politiche macroeconomiche sbagliate danneggiano anche loro.

Come se ne esce?
Facendo come Usa e Giappone. Fare deficit per finanziare tagli di tasse. La Bce dovrebbe sostenere questa politica acquistando titoli di stato.

Finora non l’ha fatto.
I tedeschi non lo vogliono.

La Bce ha ribadito di essere pronta a “usare mezzi non convenzionali”.
Per ora sono parole, per giunta in grave ritardo. Guardate il bilancio della Bce: è diversi trimestri che si sta restringendo, insieme all’offerta di credito. Prima o poi sarà costretta a passare dalle parole ai fatti.

Quindi, che si fa?
Riacquistare competitività e rilanciare l’export.

La Germania lo ha fatto comprimendo i salari: così i beni tedeschi hanno conservato prezzi competitivi, ma la domanda interna è calata parecchio.
Non ci sono alternative. Il grande avanzo commerciale tedesco crea squilibri che normalmente dovrebbero essere compensati dalla rivalutazione della loro moneta. Con l’euro non si può fare. Noi non possiamo svalutare il cambio per rendere i nostri beni a prezzi convenienti, ma possiamo riprodurre gli effetti economici della svalutazione. Tagliando i contributi sociali pagati dalle imprese. Dove troviamo i soldi? Tagliando i trasferimenti alle Ferrovie e alle Poste e ad altri servizi.

È il piano Giavazzi. Questo, però, farà salire il prezzo di quei servizi.
Non abbiamo scelta e comunque questo allontanerebbe la deflazione. Ma dobbiamo intervenire anche sul lavoro. Qui abbiamo un esempio.

Quale?
La Spagna, che è tornata a crescere. Bisogna ridurre il peso della contrattazione collettiva a vantaggio di quella aziendale.

Per fare cosa?
Per consentire alle imprese meno produttive di far scendere i salari anche sotto il minimi contrattuali, anziché licenziare o ricorrere alla Cig.

Un’occupazione senza tutele e con salari bassi.
Sempre meglio che avere una disoccupazione alta o un lavoro a tempo determinato. Il dualismo tra chi ha tutte le tutele e chi non ne ha, c’è già.

Ma così la nostra domanda interna rimane ferma.
Però sarebbe compensata da una maggiore domanda estera. L’effetto regressivo sui redditi bassi potrebbe essere attenuato dalle detrazioni Irpef.

Il premier Matteo Renzi ha detto che “la crescita non si fa tagliando i salari”.
È chiaro che se i salari sono più alti c’è più ricchezza e più domanda. Ma il loro livello deve riflettere la condizione del Paese. Se sono troppo alti rispetto alla produttività questo ha un effetto negativo sull’occupazione. Non c’è antitesi.

Questi sacrifici basterebbero a farci uscire dalla recessione?
Senza l’intervento della Bce sarà difficile. Ma potremmo negoziare da una posizione migliore.

Lei ha detto che è “meglio uscire dall’euro che ristrutturare il debito publico”.
Confermo. Ma sarebbe l’ultima spiaggia e siamo ben lontani da quella situazione. Un’eventuale uscita la pagheremmo comunque a caro prezzo.

 Da Il Fatto Quotidiano del 17 agosto 2014 

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
Caro Direttore, leggo ora il testo dell’intervista che mi avete fatto e che è stata pubblicata sul Fatto Quotidiano in data 18 agosto a firma di Carlo di Foggia. Nell’intervista mi viene attribuita con particolare enfasi (addirittura nel titolo) un’affermazione che non ho mai fatto. Non ho mai affermato che la soluzione per uscire dalla crisi economica sia far scendere i salari. Non l’ho detto e non ho mai pensato che sia compito della politica economica stabilire se i salari debbano scendere o salire. Quello che ho detto, ma che non è stato correttamente riportato, è che per uscire dalla crisi occorre che l’Italia recuperi competitività e punti sulla crescita delle esportazioni. Ho anche indicato gli strumenti per farvi fronte: (i) quella che ho chiamato la svalutazione fiscale (una riduzione del cuneo fiscale che grava sulle imprese finanziata da tagli di spesa e accorpamenti delle aliquote IVA più basse, con detrazioni IRPEF sui redditi più bassi per compensarne gli effetti regressivi); (ii) Una maggiore flessibilità in uscita limitatamente ai neo assunti; (iii) Più peso alla contrattazione aziendale per avvicinare il salario alle condizioni della produttività (e stimolarne la crescita). Queste riforme farebbero sì scendere il costo del lavoro per unità di prodotto e consentirebbero di recuperare competitività. Ma non è detto che farebbero scendere i salari, che anzi potrebbero crescere più rapidamente in seguito a una migliore dinamica della produttività. Se i salari debbano scendere o salire non lo deve stabilire la politica economica, ma la contrattazione tra impresa e lavoratori, sulla base della dinamica della produttività e del costo della vita. Vi chiedo pertanto di pubblicare integralmente e fedelmente questa mia smentita, dandole adeguata enfasi.
In attesa di un vostro tempestivo riscontro invio i miei migliori saluti
Guido Tabellini

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