“La piccola Mary mi guarda con i suoi occhioni grandi, spesso gonfi di lacrime, a volte assenti come se fissasse il vuoto”. Massimo Galeotti, 40 anni, è un infermiere di Medici senza frontiere impegnato su quello che sta diventando un vero e proprio fronte: la battaglia contro Ebola. Questo è il suo diario che il fattoquotidiano.it ha potuto leggere in esclusiva e questa è la storia di Mary.

Mary è una bimba che vive a Gueckedou, in Guinea, lo stato da cui si è diffusa l’epidemia che ha ucciso oltre 700 personeMassimo Galeotti l’ha già visitata ed è ora davanti a lei, meravigliandosi del fatto che lei non lo abbia riconosciuto. Poi si rende conto che l’ha sempre visto nascosto nella “grande tuta bianca di isolamento con annessa maschera da sub”, l’uniforme che il personale medico è costretto a indossare quando entra nel Centro per il trattamento del virus. “Quando hai addosso questa tuta il senso di soffocamento può avere il sopravvento e gettarti nel panico –  scrive il 40enne di Faenza all’organizzazione che poi pubblicherà le sue riflessioni -. Dopo cinque minuti senti le goccioline di sudore scendere dappertutto. Fa caldo. E devi anche muoverti lento, per evitare cadute accidentali che potrebbero esporti a un possibile contagio“. 

L’infermiere: “La prima volta che ho fatto un prelievo, ero terrorizzato”. La fatica dell’Africa contro la più grande epidemia di sempre per l’Africa occidentale. Ma anche la paura di chi è sul campo per frenare il contagio che – è l’allarme dell’Oms “avanza più velocemente degli sforzi per controllarlo”. “La prima volta che ho fatto un prelievo non nascondo di essere stato terrorizzato. Il rischio di contrarre il virus durante la manipolazione di aghi e sangue è elevatissimo. Poi nelle tute, anche respirare è faticoso. E proprio come succede al mare, le nostre maschere dopo un po’ si annebbiano e non si riesce più a vedere correttamente”. Il trattamento per l’Ebola è molto semplice e l’assistenza infermieristica è forse uno degli aspetti più importanti. Inizia con l’igiene: è necessario lavare i pazienti nel letto e tenerli puliti. Dare loro cibo e liquidi; a volte, i malati sono così deboli che non riescono neppure a mangiare e bere da soli.

Se sei di fronte a un paziente, “sai che probabilmente morirà” – È difficile: “In Italia, le unità di cura intensiva sono di alta tecnologia, con monitor e attrezzature di tutti i tipi, mentre qui devi fare tutto da solo“, continua l’infermiere di Msf, che ha già lavorato in Liberia, Angola, Sudan, Bangladesh. Ma è la prima volta in Guinea e soprattutto è la prima volta contro quello che è considerato un virus killer e mentre la ricerca per un vaccino è al palo per mancanza di fondi. “La mortalità è altissima, fino al 90%. Senza il nostro intervento non ci sarebbe nessun sopravvissuto, e il virus si propagherebbe causando una catastrofe” prosegue Galeotti, mentre dalla Guinea si sta spostando nei centri operativi della Liberia. “È chi sopravvive a darci la forza di andare avanti: non ho mai visto dimissioni come quelle di chi ha sconfitto questo virus. Chi sopravvive esce dal reparto di isolamento ballando e cantando. Una danza a cui prendono parte anche tutti i medici”. Una danza dopo la quale, per la prima volta, i pazienti vedono i volti di quei medici che li hanno imboccati e lavati per settimane. E possono finalmente abbracciarli.

Msf: “Servono aiuti: non abbiamo i fondi per aprire nuovi centri. Da soli non possiamo farcela”. Medici senza frontiere ha diversi presidi aperti e un centinaio di medici sul territorio. Due centri in Guinea, uno in Liberia, e un altro in Sierra leone, “dove i nostri sforzi stanno aumentando, perché la situazione è ormai fuori controllo”. Saverio Bellizzi ha 37 anni e da otto è uno degli epidemiologi di riferimento di Msf. È già stato un mese in Guinea, nell’epicentro del virus, poi altre quattro settimane a Telimele, altro focolaio guineano. Un mese di pausa, e a settembre ripartirà per l’Africa. “L’epidemia continuerà almeno fino al prossimo anno. Anche perché non ci sono abbastanza centri aperti per arginare il virus. Noi stessi, non abbiamo le risorse per aprire altri laboratori”, continua Bellizzi. Msf è l’unica organizzazione in grado di gestire presidi sanitari sul luogo. Uno sforzo, che non è sufficiente a contenere un’epidemia “fuori controllo”. “Non aspettiamo i fondi dei governi. Sono i cittadini che potrebbero fare la differenza” (http://www.medicisenzafrontiere.it/sostienici). 

L’epidemiologo: “Chi guarisce non riesce a raccontare quel che ha vissuto” – L’epidemiologo, che si divide tra le missioni di Msf e la sua casa in Sardegna, racconta anche della diffidenza delle persone che vivono nei villaggi e non vogliono sottoporti ai trattamenti per curare il virus. “Molti credono sia una malattia inventata, e possono arrivare anche a violente forme di reticenza. Poi, la frustrazione aumenta quando ti rendi conto che, dopo un paio di giorni di calma, arrivano ondate di malati al centro. È allora che capisci che il virus sta galoppando“. Malati che si moltiplicano, mentre il personale medico coinvolto nelle missioni di Msf resta sempre lo stesso, “con sempre meno rotazioni. Io stesso, a settembre è la terza volta che parto”. E sull’aereo, volando verso il continente nero, un’immagine in testa: “I malati che guariscono. I loro volti. Non riescono a raccontarti quel che hanno vissuto, ma sanno di essere uno su dieci. Nei loro occhi, si legge che sono dei sopravvissuti”.

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